Ho appena terminato di leggere Émile Durkheim–Bruno Karsenti,  La Germania al di sopra di tutto,  traduzione di Elena Muceni , pp. 144, Euro 13. In libreria dal 17 febbraio 2022. Sociologia, Storia. Si potrebbe auspicare per il critico d’oggi quanto Pier Paolo Pasolini scriveva nella sua introduzione al volume di Giacomo Debenedetti “Poesia italiana del Novecento, che cioè il critico “si fa complice degli autori che legge e commenta. Insieme scoprono il mondo. E per accedere alla scoperta utilizza tutti gli strumenti possibili senza privilegiarne alcuno, così che non esita ad affiancare all’indagine testuale quella psicanalitica, linguistica o filosofica, ed ha il metodo di non avere metodo”.

Quelle del titolo sono le prime parole dell’inno nazionale tedesco, scritto nel 1841, vietato dagli Alleati nel 1945 e ridiventato inno nazionale nel 1952, purgato anche dalle prime due strofe, tra cui quella appena citata. Potremmo dire che sono vicende del passato, ma è pur vero che la Germania, tornata unita nel 1990, ha rafforzato pacificamente in Europa il suo ruolo fino a diventare la colonna portante dell’Unione Europea, quasi a voler riprendere di nuovo quella prima strofa dell’inno nazionale.

Lo scoppio della prima guerra mondiale e il comportamento della Germania durante il conflitto non possono essere spiegati in termini geopolitici, ma hanno origine nella “mentalità tedesca” e nel suo carattere nazionale. Pubblicato nel 1915 e qui tradotto per la prima volta in Italia, questo testo di Durkheim rivela le dinamiche sociali di cui la guerra è il risultato. Come un medico con il suo paziente, egli guarda al caso tedesco decretando una diagnosi definitiva: la Germania pratica l’idealismo in modo patologico. Considerato testo di circostanza o di pure propaganda nazionalista, questo scritto di Durkheim è stato a lungo ignorato dai sociologi. Sollevando il velo sul suo carattere sulfureo, Bruno Karsenti mostra come in realtà esso condanni il nazionalismo, si inserisca in modo coerente nella sociologia di Durkheim e sia in perfetta sintonia con le riflessioni sui pericoli insiti nelle società moderne.

E’ certo che la Grande Guerra si chiamò grande per le sofferenze che impose al mondo. Questo truce motivo è attenuato dalla mitologia che spesso si accompagna alla memoria, costruendo singolari amnesie. Nei nomi intagliati sulle marmoree tavole dei nostri monumenti celebrativi della Grande Guerra devono essere scolpiti i volti di più di seicentomila giovani che persero la vita in tutte le contrade d’Italia. E non solo, perché furono milioni nel mondo. Alla Prima Guerra Mondiale subentrò la Seconda Guerra Mondiale con l’Olocausto e gli eccidi di massa. Gli intellettuali, che pensavano a una Repubblica Europea delle idee, si sono ricreduti per infilarsi di nuovo dentro i confini delle patrie-nazioni. Ancora oggi si discute di ciò. Ora, a ben guardare la figura di Émile Durkheim, autore del volumetto che qui si presenta e si recensisce e che pone sul banco degli imputati la Germania, notiamo senza se e senza ma, che quei comportamenti derivano in realtà da una speciale concezione del mondo di lunga maturazione.

Émile Durkheim (1858–1917), tra i fondatori della Sociologia, insegnò all’Università di Bordeaux e, dal 1902, alla Sorbona. Diresse l’Année sociologique dal 1896 al 1912 e si interessò attivamente ai programmi per l’istruzione pubblica. In polemica con le correnti marxiste e utopiste, fu fautore di una concezione corporativa del socialismo. Nel catalogo Marietti 1820 è disponibile Appunti su Hobbes. Un corso di Émile Durkheim seguito da Marcel Mauss (2021).

Bruno Karsenti, direttore di studi École des hautes études en sciences sociales di Parigi, studia l’influsso delle tradizioni sociologica e antropologica sulla formazione del pensiero politico moderno. Nel 2013 è stato insignito della medaglia d’argento del Centre national de la recherche scientifique.

Carlo Franza

 

 

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