Piero Marussig, camera con vista su Trieste. La mostra al Civico Museo Sartorio di Trieste.
«Sono tornato a Trieste nella mia casa di campagna. E lì ho cominciato a riflettere e controllarmi sulla natura. A Parigi dipingevo una sorta di post impressionismo a modo mio; a Trieste facevo dei paesaggi nei quali mi importava di rendere soprattutto le unità di colore. Non andavo cercando il colore degli oggetti: la realtà mi appariva dominata da un’irradiazione luminosa, della quale mi studiavo di cogliere il senso tonale […]». È il 1906 e Piero Marussig rientra a Trieste dopo aver soggiornato a Monaco, Roma, Vienna, Parigi: acquista una villa in collina, conosciuta più tardi come Villa Maria, ora semi-distrutta, un buen retiro, fonte di ispirazione e vero soggetto di molte sue opere, alcune delle quali sono esposte al Civico Museo Sartorio di Trieste per la mostra “Piero Marussig. Camera con vista su Trieste”, promossa dal Comune di Trieste – Assessorato alle politiche della cultura e del turismo e curata dalle storiche dell’arte Alessandra Tiddia, curatore e conservatore al Mart-Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, e Lorenza Resciniti, conservatore del Civico Museo Sartorio di Trieste.
All’anteprima stampa sono intervenute (giovedì 7 luglio) la direttrice del Servizio Promozione turistica, Musei ed Eventi culturali Francesca Locci, le storiche dell’arte e curatrici della mostra Alessandra Tiddia e Lorenza Resciniti, Nicoletta Colombo storica dell’arte e direttrice dell’omonimo studio d’arte a Milano e Federica Luser per Trart che ha curato l’efficace allestimento.
La mostra inaugurata ufficialmente alla presenza dell’assessore alla Cultura Giorgio Rossi e delle autorità locali, rende omaggio a Piero Marussig, uno dei maggiori esponenti dell’arte del ‘900 a Trieste e in Italia, con alcuni indiscussi capolavori provenienti dal Civico Museo Revoltella e da collezioni private, come hanno evidenziato Elena Pontiggia, storica e critica d’arte di chiara fama e Nicoletta Colombo, storica dell’arte e direttrice dell’omonimo studio d’arte a Milano, autrici insieme ad Alessandra Tiddia del catalogo dedicato a Piero Marussig e Claudia Gian Ferrari Un omaggio triestino (edito da Trart a fine 2020).
«Non poteva essere che il Museo Sartorio, una casa-museo, un gioiello incastonato sul colle di San Vito ad accogliere questo saggio di pittura triestina» – afferma Lorenza Resciniti. «In primo luogo perché dalle finestre del secondo piano, dove sono allestite le opere, si gode di una vista magnifica sui tetti delle case della città, sul golfo e sulla costa, come la offre Marussig nei suoi quadri. In secondo luogo» – sottolinea la curatrice e conservatore del Sartorio – «perché questa sede dei Civici Musei di Trieste è il luogo ideale – per la sua atmosfera di intimità domestica, dove piace stare in silenzio a osservare il dentro e il fuori – per esporre le opere comprese in questo progetto, dipinti preziosi normalmente custoditi da un amorevole collezionismo privato, che oggi li mette generosamente a disposizione di noi tutti». Il progetto di allestimento, a cura della storica dell’arte Federica Luser per Trart, presenta i momenti salienti dell’opera di Marussig. Quello triestino raccolto nella villa di Chiadino e quello milanese in cui l’artista è protagonista della stagione di Novecento Italiano.
Le opere degli anni trascorsi a Trieste (dal 1906 al 1919) riflettono la sua percezione di un «macrocosmo racchiuso nel microcosmo della sua casa, dove interno ed esterno, natura e città, vita privata e vita sociale coincidevano. Chiadino era la sua Tahiti». «Per un pittore intimista, anzi intimo come lui, la natura non superava i perimetri, pur ampi, del suo giardino e per dipingere la vita gli bastavano le figure e le cose che vedeva nelle sue stanze, sulla spianata di ghiaia bianca davanti alla villa, nel parco di alberi e piante che la circondavano».
Siesta (1912), Serata a Trieste (1914), Concertino nel parco (1916) sono solo alcune delle opere presenti in mostra riferite a questa tematica. Dipinti impregnati di un senso di agiatezza intima, quella “Gemütlichkeit” difficilmente traducibile con un sinonimo italiano, ma che corrisponde a un senso di armonia tra sé stessi e l’ambiente circostante, come ha ben osservato Alessandra Tiddia nel corso dei suoi studi dedicati all’artista. I dipinti di Piero Marussig sono finestre aperte sulla città e chiuse a contenere un mondo intimo fatto di affetti e “piccole e belle cose”.
Il progetto di allestimento si sofferma poi sul periodo milanese, iniziato nel 1919 con la prima mostra personale alla Galleria Vinciana a Milano, che apre all’artista le porte della critica e quelle del salotto di Margherita Sarfatti, introducendolo di fatto nel milieu artistico italiano. Nel 1920 Marussig si trasferisce nella città lombarda e da quel momento in poi espone a fianco di quei pittori che credono nella traduzione delle modalità classiche italiane in un linguaggio moderno: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Ubaldo Oppi, Mario Sironi.
Accostando la propria ricerca a quella dei colleghi, Piero Marussig abbandona il colore espressivo e dà maggiore solidità alle sue figure, trasformando quella intima quotidianità tipica delle opere “triestine”, in una dimensione sospesa e idealizzata. Fino al 1932 Piero Marussig parteciperà a tutte le attività del gruppo esponendo a importanti esposizioni in Italia e all’estero.
Piero Marussig nasce a Trieste il 16 maggio 1879. Frequenta la Scuola Industriale (oggi “Alessandro Volta”) dove ha la fortuna di avere come insegnante Eugenio Scomparini, uno dei più importanti artisti operanti in città in quegli anni, presidente del Circolo artistico e impegnato nella decorazione di edifici pubblici e privati. Nel 1898 si trasferisce a Monaco di Baviera, dove rimane fino al 1901, per frequentare la locale Accademia di Belle Arti meta molto ambita dagli aspiranti pittori triestini, che privilegiavano la città tedesca alla vicina Venezia.
In quegli anni a Monaco il clima culturale era estremamente vivace, grazie alla Secessione e a quanto sviluppato intorno ad essa: esposizioni e riviste come “Jugend” e “Semplicissimus” decretavano scelte specifiche in termini di stile. Ma a Marussig, di indole schiva e meditativa, interessava soprattutto studiare e apprendere quanto più possibile e, ben presto, «Da Monaco sono andato a Roma […] Vivevo il più delle giornate nei musei, nelle pinacoteche. Di quel che si faceva intorno a me mi importava poco o niente. Amavo i classici volevo rendermi ragione dei segreti della loro pittura […]».
Poco si sa di questo soggiorno, quasi nulli i documenti, mentre molte sono le ipotesi. Come l’incontro con Ruggero Rovan, scultore triestino nella città eterna grazie a una borsa di studio dell’Istituto Rittmeyer di Trieste, testimoniato da alcune sculture raffiguranti Rina Drenik Marussig, la moglie di Piero. Chi avesse frequentato non si sa con esattezza, ma in quegli anni di stimoli ce ne erano parecchi. A Roma erano presenti anche Umberto Boccioni e Gino Severini, che proseguivano gli studi con Giacomo Balla, aprendosi al divisionismo. Altra probabilità è un suo contatto con il gruppo dei Ventiquattro della campagna romana, artisti che dipingevano en plein air e da cui potrebbe aver desunto una maggiore attenzione per il paesaggio aperto e arioso.
Ma nel 1905 parte nuovamente e la sua meta è Parigi. «Io ho cominciato a dipingere dopo essere stato a Parigi […] Parigi mi ha aiutato a capire la modernità […]». Qui raggiunge nuovi risultati sia nella composizione che nelle accensioni cromatiche: chissà se avrà avuto modo di vedere la mostra al Salon d’Automne con la presentazione al grande pubblico di quelli che saranno definiti i Fauves. Avrà visto Matisse, Derain e gli altri? Avrà avuto modo di accostarsi alla pittura di Cézanne? Sicuramente i loro semi erano stati gettati nell’immaginario pittorico di Marussig, ci vorranno ancora degli anni, ma andrà a pescare lì, in quelle cromie forti e contrastate, per i suoi dipinti triestini.
Nel 1906 ritorna a Trieste e si trasferisce nella villa a Chiadino che diventa per lui una sorta di “Polinesia mitteleuropea”, una definizione particolarmente calzante coniata da Elena Pontiggia per evocare quel senso di isolamento primigenio e naturale ma inserito in una tradizione culturale profondamente radicata a Trieste, quella appunto della mitteleuropa la cui matrice artistica è ben rintracciabile nei dipinti di questi anni. Se la tavolozza accesa, talvolta quasi antinaturalistica nel suo espressionismo cromatico, rivela una sensibilità fauve, le figure e la loro dimensione nello spazio compositivo riecheggiano soluzioni ancora viennesi e secessioniste.
Con la fine della Prima guerra mondiale il suo mondo si dissolve, e anche la sua pittura muta: l’Austria felix non esiste più, nasce una nuova Trieste. E con essa un nuovo Marussig, che abbandona l’espressionismo che l’aveva caratterizzato per assumere forme più salde e vicine a quel “Ritorno all’ordine” diffuso in gran parte d’Europa.
Agli inizi del 1920 si trasferisce a Milano, inizia una nuova vita e opera una svolta stilistica nella sua pittura.
La città d’altronde offriva molte opportunità tra gallerie, collezionisti e colleghi ed era considerata tappa fondamentale per molti artisti della sua generazione. Entra nella cerchia di Margherita Sarfatti e nel 1922 – cento anni or sono – è tra i fondatori di Novecento Italiano con Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Emilio Malerba, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Si apre per il pittore triestino una ribalta nazionale e internazionale con mostre a Milano, Venezia, Roma, Berlino, Ginevra, Londra, Nizza, Parigi, Zurigo. La sua pittura dagli anni ’20 giunge a forme solide e compatte, le cromie accese si abbassano a toni moderati, anche se permane sempre un fremito di matrice secessionista nella scansione dei piani, nel panneggio delle vesti. La compostezza delle composizioni durante il periodo di adesione a Novecento Italiano perdurano fino agli anni ’30, quando Marussig incomincia a defilarsi dal gruppo rimanendo ai margini, forse non capito fino in fondo da critica e colleghi. Muore a Pavia il 16 gennaio 1937.
Carlo Franza