Per tutto l’Ottocento e parte del Novecento l’Italia è divenuta la “patria dell’anima” il luogo amato da scrittori e poeti russi; basti pensare ai loro viaggi frequenti e veloci, come fu per Cechov che si recò “nel paese delle meraviglie tre volte, facendo tappa sempre nella “città bella” di Venezia.  Né si possono dimenticare i lunghi soggiorni di Gorkij a Capri e Sorrento o di Gogol a Roma “patria dell’anima” di cui ci rimangono numerosi documenti. Lo scrittore si trasferì nella capitale italiana tra il 1837 e il 1841 e vi trovò ispirazione: qui scrisse “Il Cappotto” e il primo volume di “Le anime morte”. Ogni mondo si svela con sorprendenti risvolti, talvolta deludenti, che certo l’immaginazione non aveva prefigurato, ma non fu così per l’Italia di Nikolaj Gogol; se ne era innamorato ancora prima di averla vista, tanto da dedicarle uno dei suoi primi scritti e l’unico componimento in versi: “Italia, magnificente paese! Per te l’anima geme, e si strugge: tu sei paradiso, tu piena letizia…Giardino dove tra il vapor dei sogni vivono Torquato e Raffaello ancora! Ti vedrò io, trepido d’attesa?”. E quando finalmente la vide non ebbe disillusioni, anzi ne parlò come la “patria della mia anima”, il luogo dove essa “viveva prima ancora che (venisse) alla luce”. Amareggiato per il magro successo che la messa in scena della commedia “L’ispettore generale” aveva riscosso a Pietroburgo, Gogol si era trasferito in Italia nel 1837, dopo essere andato in Germania, Svizzera e Francia, anche per via della malferma salute. A Roma – “dove l’uomo è più vicino al cielo di una versta intera” e l’aria “fa venire voglia di trasformarsi in un gigantesco naso, con narici grosse come secchi” per “farci entrare almeno settecento angeli” – visse fino al 1841 esattamente in via Santo Isidoro 17, frequentando scrittori russi e italiani, come il poeta dialettale Gioacchino Belli. Dell’Italia ne amò sia la grande storia dei popoli che l’abitarono, chè l’arte tutta e i monumenti – “tutto ciò che leggete nei libri, lo vedete qui davanti a voi” -, la sua natura e il suo popolo, dotato “in gran misura di senso estetico”. Qui lo scrittore d’origine ucraina fu felice e il Belpaese diventò terreno d’ispirazione: vi che compose il primo volume del poema “Le anime morte”, “Il ritratto” e “Il cappotto”. Ed è in Italia che abbozzò quell’idea della purificazione dall’anima che in seguito influenzò buona parte della letteratura russa. A Firenze ed esattamente in Piazza Pitti vi è l’abitazione dove Dostoevskij scrisse “l’Idiota”; qui a Firenze si possono ripercorrere le passeggiate dello scrittore che qui ebbe la figlia Lubjov e concluse il suo romanzo più famoso. Civico 22, Piazza Pitti, Firenze: dietro una storica targa commemorativa si cela uno dei soggiorni italiani più fruttuosi per uno scrittore russo. È qui che nacque la figlia di Fëdor Dostoevskij e sua moglie Anna, una bambina che chiamarono appunto Lubjov (“amore” in russo).  Né va dimenticato che qui l’autore di Delitto e Castigo concluse quel progetto che lo “tormentava da tempo, perché un’idea difficile”, quella di “raffigurare un uomo assolutamente buono”: quel Cristo moderno che avrebbe reso “L’idiota” uno dei romanzi più  intensi, forti e famosi della letteratura russa.

È il 1868. Firenze capitale, appena spostata da Torino. A Palazzo Pitti abita il re dell’Italia unita. E, dopo aver lasciato Mosca per l’Europa sfuggendo ai creditori, Dostoevskij trova casa proprio sulla spettacolare piazza in cui s’affaccia il Palazzo Reale. “Il cambiamento ebbe di nuovo un effetto benefico su mio marito e noi cominciammo ad andare insieme per chiese, musei e palazzi”, annotò sua moglie tra i ricordi del loro anno fiorentino. Un periodo felice, cadenzato da quotidiane passeggiate ai Giardini di Boboli, ma anche da pressanti scadenze con il Russkij Vestnik (Il messaggero russo) su cui pubblicava a puntate il romanzo. Con il rientro a Pietroburgo, l’Italia non scompare. Dagli articoli che Dostoevskij pubblica sulla rivista d’attualità Grazdanin (Il cittadino) traspare un sentimento di nostalgia per un’Italia che non vide mai: quella dei “duemila anni” in cui gli italiani avevano “portato in sé un’idea universale…reale”, l’”unione di tutto il mondo”. Un’idea assente nella “creazione del conte di Cavour”, che non è altro che “un piccolo regno di second’ordine che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale”, “un’unità meccanica e non spirituale”. In queste parole e in questa visione si coglie la grandezza del pensiero di Dostoevski.

A Venezia si possono ripercorrere i passi del poeta Brodskij che al capoluogo veneto dedicò il saggio “Fondamenta degli Incurabili”. Una voglia matta dell’Italia, terra amata dai russi, dai grandi russi che si struggevano di desideri e nostalgie, non solo andare e visitare l’Italia, ma tornarvi e ritornarvi. L’Italia è stata oggetto di sentimenti forti che sono approdati su pagine memorabili degli scrittori russi. Poeti e romanzieri russi, realisti e romantici hanno amato l’Italia come come pochi e non solo per tutto l’Ottocento e in parte i primi anni del secolo successivo. Quella Russia che in Italia molti vedevano ancora come chiusa, aveva iniziato ad aprirsi all’Europa con Pietro Il Grande che, con un editto del 1696, aveva invitato i figli delle famiglie agiate del suo impero a recarsi in Occidente per i propri studi. E la penisola italiana divenne presto meta privilegiata,  di viaggi fugaci –come quelli di Anton Cechov che si recò “nel paese delle meraviglie” per tre volte e sempre facendo tappa nella «città bella» di Venezia- e di lunghi soggiorni, come per il socialista Maksim Gorkij o per il realista Nikolaj Gogol, secondo cui “tutta l’Europa è fatta per essere visitata, ma l’Italia è fatta per viverci!” e “chi vi è stato può dire addio agli altri Paesi” perché “chi è stato in cielo non avrà mai voglia di tornare sulla terra”. L’esule Gorkij trasformò Capri in un’isola socialista, tanto che scrittori e intellettuali raffinati del socialismo s’incontravano quotidianamente nella sua villa per dialogare di rivoluzione e letteratura; sarebbe dovuto rimanere due mesi e invece vi restò ben sette anni, perché come tutti ne subì il fascino, ma anche perché l’Italia fu per Maksim Gorkij rifugio politico, terra d’esilio, anzi di un doppio esilio: dal governo zarista prima, dai soviet poi. E il suo status di dissidente fece accrescere l’aura di rispetto di cui godeva presso gli italiani, sia come scrittore che come simbolo della lotta dell’intellighenzia contro il regime assolutista. E quando sbarcò a Napoli, il 27 ottobre 1906, la notizia comportò l’arrivo di giornalisti e ammiratori, tanto che lo scrittore fuggì a Capri; fu così che sull’isola si creò una sorta di colonia russa, scrittori e intellettuali socialisti s’incontravano quotidianamente nella villa di Gorkij per dialogare di rivoluzione e letteratura, e persino Lenin si recò nel Golfo di Napoli per incontrare il drammaturgo impegnato. Impegnato tra politica e lavoro (persino la stesura, tra le altre opere, de “La madre”), il padre del realismo socialista a Capri riposava, sostando in una trattoria per gustare il buon vino locale -nonostante oggi c’è chi mette al bando un buon bicchiere di vino- e gustarsi gli isolani che ballavano la tarantella. La nostalgia per la Russia però non tardò ad affiorare e quando nel 1913 lo zar decretò un’amnistia, Gorkij vi fece ritorno. Rivide l’Italia nel 1921: in fuga ora dalle persecuzioni leniniste e in cerca di un clima più favorevole per la sua tubercolosi, si stabilì a Sorrento. E quando nel 1931 rimise definitivamente piede in terra russa fu alla terra del suo esilio che rivolse gli ultimi pensieri: “In Unione Sovietica – ricordò di Gorkij il medico ingiustamente condannato per averlo ucciso – non aveva più aria per respirare, aspirava appassionatamente a tornare in Italia”. L’Italia luogo prediletto principalmente per via del clima e della cultura; fuggendo dai loro rigorosi inverni, in Italia gli scrittori russi venivano a rifugiarsi sotto “la volta del cielo tutta azzurra” che giovava alla loro salute, che alcuni avevano funestata specie dalla tubercolosi che in quegli anni impazzava o altri malanni. Italia voleva dire sole, storia e arte. Antichità “a ogni piè sospinto”, piazze “tutte ricoperte da rovine”, pinacoteche “dove ci sarebbe da vedere per un anno intero”, strade con una “scuola di pittori e scultori quasi a ogni porta” e tante chiese come “in nessuna altra città al mondo”.

Per contro, non un altrettanto fascino si aveva in Italia per la Russia, erano gli anni della Santa Alleanza, e l’impero zarista era segno di reazione e in Italia si metteva sulla stesso piano arretratezza politica e chiusura culturale. La straordinaria produzione letteraria russa dell’epoca non destava granché interesse, nonostante essa vivesse il suo momento storico più alto, specie nelle riviste letterarie e culturali della prima metà dell’Ottocento. Solamente nella seconda metà del secolo cominciarono a circolare opere di Dostoevskij e Tolstoj e soprattutto grazie alla mediazione di Parigi, a riprova di quanto provincialismo intellettuale circolava nell’epoca. L’intera cultura italiana non fu propriamente attenta alla cultura russa, anche se nella nostra penisola Gogol scrisse la prima parte di “Le anime morte” e guardò con interesse al nostro Dante Alighieri, pensando addirittura di inserire il poema in una trilogia. Ma l’Italia fu sorda allora a Gogol, sorvolando sulla nascita di quel capolavoro che è “Le anime morte”,  e fu sorda anche ad altri scrittori russi di chiara fama. Basti pensare che recentemente in occasione della guerra Russia-Ucraina, si è pensato di debellare taluni grandi scrittori russi -tralascio i nomi per grande rispetto- dalle nostre università italiane. Questa è la nostra piccola Italia, che ricalca il “piccolo mondo antico” di Fogazzaro.

Carlo Franza  

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