Sulla cultura l’Italia perde colpi. Ma è ancor più vero che se la politica non ha cultura perde idee e fini. Voglio ricordare che “Sviluppo non è sempre progresso”, diceva Pier Paolo  Pasolini. E Aldous Huxley nel lontano 1937 pubblicò il libro “Fini e mezzi” per suggerire che la politica ha in mano i mezzi, ma sempre più spesso ignora la cultura che cerca di elaborare un’idea dei fini. Il Ministero della Cultura langue. Ci si perde nel dare addosso al Sottosegretario Vittorio Sgarbi che è l’unico che in quella sede può fare veramente cultura. Dico all’amico Vittorio di resistere e respingere al mittente le cattiverie che gli vengono gettate addosso. È spietata e amara la fotografia del dossier Federculture che si trascina dal 2018 ad oggi: partecipazione culturale nazionale in calo all’8%(la media Ue è al 18), tagli continui alle risorse.

C’è da rimanere stupiti se in un Paese come l’Italia  che ha  oltre 12mila biblioteche, i lettori calino ogni anno abbassando la già modesta media nazionale (il 57% degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno);  e ancora in un Paese con 3.609 musei.  Una vergogna inaudita, certo e in primis la colpa a mio avviso è da attribuire ai giornali, specie ai quotidiani, poi alle scuole superiori e all’Università.  Il degrado culturale è vistosamente alto, nonostante abbiamo il triplo della Francia, ben 5mila siti culturali, ben 46mila beni architettonici vincolati, ben 34mila luoghi di spettacolo, ma il nostro indice di partecipazione culturale nazionale è da anni all’8%, contro una media Ue che raggiunge il 18% arrivando al 143% della Svezia, secondo l’Eurobarometro il Paese europeo con la più alta partecipazione dei cittadini ad attività culturali. Sfogliateli i nostri quotidiani, poveri in tutto, tra politica spiccia (scrivono scenari politici ma sbagliano perché sono scenografie politiche), mancanze di firme, abbondanza di gossip e altre trovatelle come uso di pomate e unguenti, ricette di cucina e scopiazzamenti vari.  

Non tutti sanno che l’industria culturale italiana vale 76 miliardi di euro, dà lavoro a un milione e quattrocentomila persone impiegate in 44mila imprese, eppure le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali in questi anni hanno perso miliardi. Come è possibile è la domanda che viene da farsi in continuazione leggendo l’ultimo Rapporto di Federculture sul settore dei beni e delle attività culturali: per secoli siamo stati un Paese produttore di cultura e ora siamo scivolati in fondo alle classifiche, sorpassati da Paesi che hanno adottato politiche culturali diverse (migliori) dalle nostre. Lo dicono i numeri: la Francia, ad esempio, ogni anno stanzia circa 4miliardi per il suo dicastero della cultura e prevede un sistema di gestione autonomo con maggiore integrazione tra gestione pubblica e privata con sistemi fiscali a favore delle sponsorizzazioni, delle erogazioni liberali, delle fondazioni bancarie.

Entro nel dettaglio circa la “Legge di Bilancio 2023” e  le spese per la Cultura. Ma al di là dalle parole, rimangono i numeri. Il disegno di legge di bilancio 2023-2025 autorizza, per lo stato di previsione del MIC – Ministero della cultura, spese complessive, in termini di competenza, pari a 3.903,2 milioni di euro per il 2023, 3.460,9 milioni di euro per il 2024 e 3.438,4 milioni di euro per il 2025. Quindi un decremento in termini assoluti pari a 63,5 milioni di euro, ossia a 58,6 milioni in termini di spese finali. Si tratta di un’ulteriore riduzione della quota percentuale designata all’ambito culturale, che si abbassa dallo 0,5% del 2022 allo 0,4% della spesa finale del bilancio statale del 2023. Nello specifico, questi numeri come verranno tradotti? Nel segmento “Sostegno, valorizzazione e tutela del settore dello spettacolo dal vivo”,  a causa di tutte le questioni legate ai lockdown e alle restrizioni, si passa da 575,3 milioni a 523,5 milioni. Incrementata invece la “Tutela e valorizzazione dei beni archivistici”, che passa da 169,8 milioni a 184,1. Aumenta anche la “Valorizzazione del patrimonio culturale e coordinamento del sistema museale”, da 397,8 a 435,5 milioni. Mentre subisce un taglio la già esigua dotazione per “Tutela e promozione dell’arte e dell’architettura contemporanea e delle periferie urbane”, da 34,5 a 32,6 milioni. Ci si trova d’accordo con il presidente di Federculture che per lo sviluppo della cultura «serve una strategia, una progettualità, una visione di prospettiva che prenda il posto delle logiche di emergenza che hanno caratterizzato gli anni passati, quando non si è esitato a tagliare sulla scuola, sulla ricerca, sull`Università, sulle misure per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali». Quello che manca, ancora, è la strategia, la visione di prospettiva, la progettualità, l’alternativa reale ai tagli. Secondo Federculture siamo al 26° posto tra i Paesi della Ue per spesa pubblica in istruzione e formazione con un’incidenza percentuale del 4,2% sul Pil, contro una media europea de15,3 per cento. Il numero degli immatricolati degli atenei italiani è in costante diminuzione: in dieci anni gli iscritti alle università sono da passati 338.482 a 280.488, -15%, La strategia Europa 2020 prevede il 4o% di laureati tra i 3o e i40 anni: la media Ue è vicina al 35% mentre in Italia siamo solo al 20 per cento. Pensate che già nel 2013 nessuno degli atenei italiani era tra i primi 100 nella classifica internazionale delle migliori università al mondo: l’Università di Bologna compare, prima tra le italiane, in 194esima posizione (-11 posizioni rispetto al 2012). E come se non bastasse, si aggrava sempre più la fuga dei nostri giovani dal Paese: in dieci anni 68mila neolaureati hanno lasciato l’Italia che è sempre meno appetibile da parte di studenti stranieri. Dinanzi a tutto ciò che fare? Quale direzione prendere per invertire la rotta? Il futuro non lascia ben sperare. L’Italia si è avviata in un declino che non ha sosta.

Carlo Franza

 

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