Antonia Di Giulio con l’esposizione dei suoi ultimi lavori al Circolo degli Esteri di Roma, presentata da un funzionario diplomatico del Ministero -aggiungo che lo scritto non offre nulla di nuovo e di  più-, Antonia Di Giulio inizia un nuovo percorso creativo.

In questa occasione presenta tre dipinti su tela di grandi dimensioni, accompagnati da tre scatti fotografici di Mario Schifano in cui Antonia Di Giulio è in piedi con un semplice abito nero e tiene in mano una piccola tela bianca a testimoniare l’inizio di un nuovo percorso di solo pittura, senza la presenza della Duchessa. La pièce teatrale, l’intera performance, esaurito il primo tempo, oggi ci immette nel secondo, e se non c’è più la Duchessa, è di volta la Signora.  Il personaggio ha cambiato gli abiti, cambia la scenografia, cambiano i gesti, cambia la mimica, cambia l’aria, cambiano le luci e le ombre, e altro.  Bene. Partiamo da Schifano, non è stato il primo a utilizzare la fotografia nel suo studio -primo di lui gli statunitensi ad iniziare da Weston -, era convinto che la fotografia servisse per catturare la vita e sotto qualunque forma essa si presentasse, l’unico modo possibile per farlo era attraverso il realismo.  Quel gruppo di fotografi statunitensi fondò un’estetica che si basava sulla “perfezione tecnica e stilistica”, e qualunque foto non perfettamente a fuoco, o perfettamente stampata, o montata su cartoncino bianco era “impura”. Si trattava di una reazione violenta allo stile sdolcinato e sentimentale che in quegli anni aveva reso celebri i fotografi pittorici della California. A quei tempi molti credevano che la fotografia non fosse altro che una nuova classe della pittura e il tentativo di creare con la camera effetti pittorici crebbe, creando una serie di fotografie e fotografi molto simili tra loro; dando luogo ad una serie di “fotopitture” che non avevano nulla a che vedere con la naturalezza della fotografia. Da qui parte, da qui è partito Mario Schifano, con la Duchessa prima e la Signora dopo.  Antonia di Giulio ne è stata il mezzo.  Antonia di Giulio è l’incarnazione della poesia applicata alla fotografia, e il suo motore è senza dubbio la ricerca continua di identificarsi con la natura per conoscerla fino alla più profonda essenza. Lei ha tentato di farsi fotografare, di fotografare se stessa, tentava di “fotografare la vita”. La stessa passione per la purezza delle cose, siano esse fotografie o teleri, entrambi erano fedeli alla purezza dell’“essere”. Il grande Edward Weston racconta nei suoi “day books” che “la macchina deve essere usata per registrare la vita” anche se astratta, e non esiste mezzo migliore per registrare con totale esattezza l’oggettività. In questo modo il risultato finale è un’immagine talmente vera, che quasi ci appare come un simbolo dell’immagine stessa, ma che di nuovo ci sorprende apparendoci per ciò che è, ma come se fosse la prima volta che la si osserva. Una specie di iperrealismo che rivela l’essenza vitale delle cose.

Carlo Franza

 

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