L’Arte e la “CROCE”. Una grande mostra a Lugano con artisti di chiara fama svela all’Europa il mistero e la bellezza del simbolo universale.
Con la mostra “Sulla Croce” realizzata con il Patrocinio del Vicariato di Roma in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia e della Conoscenza, la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati presenta presso lo Spazio -1 di Lugano un allestimento tematico dedicato alla Croce, simbolo universale della sofferenza. Una selezione di opere, provenienti dalla Collezione Olgiati, da prestiti museali e da altre collezioni private, che spaziano dal Seicento ai giorni nostri, attraverso le quali si indaga la complessità e il mistero del simbolo della Croce nell’arte.
Documentata fin dall’antichità più remota la Croce è, tra le figure geometriche, il terzo simbolo fondamentale (dopo il cerchio e il quadrato). Nel Cristianesimo ha assunto successivamente diverse raffigurazioni e significati: il Crocefisso, il Cristo, il Verbo, la Seconda Persona della Trinità. Tramite un approccio dichiaratamente laico e, al contempo, rispettoso della dimensione del Sacro, l’esposizione propone opere di artisti che, in diverse epoche, con diverse attitudini filosofico-religiose e differenti linguaggi, hanno affrontato il tema della sofferenza umana.
Le opere selezionate per la mostra – dipinti, fotografie, bassorilievi e sculture – attraversano tutto il ‘900 fino ai giorni nostri, con due presenze radicate in un passato influenzato differentemente dalla dottrina cattolica, quello del primo seicento bolognese e quello ticinese di un secolo più tardi. Il pregevole dipinto del pittore ticinese Giovanni Orelli “Gesù dormiente sulla Croce” (1742 ca.) ci introduce ad un’iconografia molto peculiare, un Bambin Gesù addormentato come deposto delicatamente sulla Croce, un evidente “memento mori” dove la drammaticità dell’evento è resa ancor più delicata dal candido incarnato. Tale sofferta immagine fa da contraltare al “San Sebastiano alla colonna” del pittore bolognese Ludovico Carracci databile ai primissimi anni del ‘600. Un dipinto che ci mostra il martire nella sua iconografia classica, prevalentemente concentrata, sul supplizio delle frecce cui il martire venne sottoposto.
Procedendo nel percorso espositivo, un prezioso ambiente vede al suo interno dialogare quattro importanti opere di due maestri del ’900, Medardo Rosso e Lucio Fontana. Del primo è presente in mostra il “Bambino ebreo” (1915), struggente e sconsolata testa di bimbo che più di un ritratto ci appare come uno stato d’animo. Un bambino, l’immagine dell’età della purezza che si presenta al tempo stesso sorgente di vita e immagine che contiene in sé una sofferenza futura, ma ancora non data. Una raffigurazione, quella di Medardo Rosso, che incorpora e materializza un sentimento e una visione poetica dell’arte.
Di Lucio Fontana, forse l’artista più originale e complesso del XX secolo, vengono presentate quattro opere, i bassorilievi in terracotta “L’ascensione” (1950-55), “Deposizione” (1956) e il “Cristo” (1959) e la scultura in ceramica “Testa di fanciullo”, di circa dieci anni precedente e datata 1948, nella quale il senso del sacro viene alluso in un ritratto di bimbo, estraneo ad ogni tematica religiosa, ma non per questo meno commovente e perfettamente abbinato al Bambino ebreo di Medardo. Le terrecotte di Fontana ci invitano ad andare oltre la materia stessa, come per liberarla di quella forza interiore che spinge fuori, in un’ansia di infinito, di possibile sconosciuta nuova vita. Sono tre opere che magistralmente pongono di fronte a noi il tema della sofferenza dell’uomo come momento alto di nuove possibilità; non con una imposta e circoscritta visione religiosa bensì andando ad esplorare il tema della materia così importante: per lui come artista, per i fedeli come elemento della dottrina.
A parete e in dialogo con le sculture di Fontana e Rosso una “Crocefissione” di Alberto Burri, combustione plastica di piccolo formato che restituisce nella sua bidimensionale trasparenza lacerata e soggetta a combustione, tutta la drammaticità dell’atto della Crocefissione. Liberare lo spazio, e allo stesso tempo liberarsi di esso, rompendo e lacerando le forme è il messaggio forte di emancipazione di una nuova possibile esistenza attraverso un passaggio di sofferenze e lacerazioni. Un piccolo oggetto ci pone invece di fronte ad un artista, Yves Klein, la cui religiosità, nella sua breve e intensa carriera, ha segnato l’intera opera: lo straordinario “Ex voto a Santa Rita da Cascia” (1961), frutto dei pellegrinaggi dell’artista francese al santuario della santa dei casi impossibili. La mostra continua al di là di ogni distinzione cronologica con i due bronzi di Marino Marini il “Giocoliere” (1946) e il “Prigioniero” (1943). Sono gli anni del rifugio in Svizzera a Locarno, e nelle opere di questo periodo, l’artista ha inteso esprimere il ridicolo dell’esaltazione di un uomo che vuol comandare. L’umanità ha paura e l’artista la manifesta in opere come queste, dove la materia va a rompere le proporzioni e a prendere campo, infliggendo alle forme una tensione inaspettata. Il Prigioniero, malinconica e struggente scultura in bronzo, testimone di efferati e disumani avvenimenti in territorio europeo ci disorienta, quasi generando imbarazzo se pensiamo alla data, quel 1943, quando l’umanità intera finalmente prese coscienza dell’inspiegabile atto di depravazione umana che furono i campi di sterminio nazisti e gli orrori della guerra. Anche il Giocoliere porta ancora il peso di quegli anni bui, e nella sensibilità esperita della forma appare il senso del tragico che si manifesta in una figura echeggiante i lacerati corpi dei cristi crocifissi di gusto tardomedievale. Marino stesso definisce le opere di questo periodo architetture di un’enorme tragedia. Ecco allora il “Lying Man” (Uomo sdraiato, 2014) della scultrice tedesca Paloma Varga Weisz. Pur realizzato a cinque secoli di distanza, esso dialoga idealmente con il martirio di San Sebastiano del Carracci, nudo e trafitto da frecce. Effige della sofferenza del martire, trova sorprendente corrispondenza nella scultura della Weisz: una figura maschile in legno grezzo, supina, in scala al vero, abbandonata su una ruvida coperta. Un’immagine che richiama tragicamente il destino di tanti migranti e profughi, icona della sofferenza che appartiene tristemente alla cronaca del nostro nuovo mondo globale. Il percorso si chiude con tre artisti del presente: Adrian Paci, Jannis Kounellis e Roberto Ciaccio. Dell’artista albanese Adrian Paci è presente la recente serie fotografica Via Crucis (2011). Il tema fondamentale nella narrativa evangelica è restituito dall’artista con una stampa fotografica su metallo dal sapore prosaico, nella quale la presenza del sacro è diffusa e incarnata dalle relazioni famigliari, dalla scelta dell’artista di chiedere ai membri della sua famiglia e ai suoi 3/6 amici di essere loro protagonisti delle scene. Un rimando pasoliniano si avverte in questa Via Crucis in termini di un’iconografia di origine plastica che ha le sue radici nella grande tradizione giottesca o nella asciutta ieratica umanità legata all’opera di Masaccio. Due grandi maestri molto cari a Pasolini e allo stesso Paci. Jannis Kounellis e Roberto Ciaccio hanno elaborato il simbolo della Croce secondo personalissimi codici astratti. Entrambi, pur da premesse diverse, organizzano la superficie dell’opera attraverso un’essenziale articolazione delle linee e dei piani in verticali e diagonali. Kounellis orienta in diagonale una grande Croce su di una cruda superficie metallica drammaticamente impreziosita da filamenti, intitolata “Punto croce” e realizzata nel 2013. L’iconografia ferma il supplizio in un’immagine potente e diretta che non lascia spazio ad altro che alla sofferenza che viene evocata. Infine, non ultimo l’artista milanese Roberto Ciaccio, scomparso prematuramente nel 2014, e a cui questo progetto espositivo in parte si ispira. Nel suo “Trittico per la Croce” (2001), evoca il carattere fantasmatico dell’apparizione, mentre la presenza-assenza dell’immagine palesa un clima di sospensione della Croce. Viene qui annullata la dimensione seriale, tipica della riproduzione grafica, attraverso la scelta della tecnica non replicabile del monotipo.
La mostra è accompagnata da un magazine di approfondimento a cura di Alberto Salvatori con contributi speciali di Remo Bodei, Luigi Fassi e Giovanni Leghissa.
Elenco artisti in mostra:
Alberto BURRI (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995)
Ludovico CARRACCI (Bologna, 1555 – 1619)
Giovanni Antonio Felice ORELLI (Locarno, 1706 – 1776)
Medardo ROSSO (Torino, 1858 – Milano, 1928)
Lucio FONTANA (Rosario di Santa Fé, Argentina, 1899 – Comabbio, 1968)
Yves KLEIN (Nizza, 1928 – Parigi, 1962)
Marino MARINI (Pistoia, 1901 – Viareggio, 1980)
Jannis KOUNELLIS (Pireo, Atene, 1936)
Roberto CIACCIO (Roma, 1951 – Milano, 2014)
Paloma Varga WEISZ (Mannheim, Germania, 1966)
Adrian PACI (Shkodër, Albania, 1969)
Spazio -1. Collezione Giancarlo e Danna Olgiati
La Collezione Giancarlo e Danna Olgiati è parte del circuito museale del MASI Lugano, Museo d’arte della Svizzera italiana. La sua sede, Spazio -1, è adiacente al centro culturale LAC Lugano Arte e Cultura e ospita oltre 200 capolavori che spaziano dagli anni Cinquanta del Novecento al presente. La collezione d’arte contemporanea Giancarlo e Danna Olgiati, concessa in deposito alla Città di Lugano nel 2012, viene proposta al pubblico in allestimenti sempre diversi unitamente a mostre temporanee dedicate all’approfondimento dell’opera di artisti inclusi nella raccolta.
Vi dirò che da questa mostra se ne esce con il cuore in pianto, con il dramma della croce ancor vivo dopo duemila e più anni, con le scene e i drammi dei cristiani ancora oggi perseguitati , con quel simbolo che solo può reggere e far fronte a tutte le problematiche del continente europeo, dell’Europa in ansia e in affanno a cui l’Arte ancora una volta offre una meditazione unica e singolare. Un simbolo da portare in petto e nel cuore, senza vergognarsi di doversi chiamare cristiani.
Carlo Franza