“L’arte è libertà”. Enrico Baj in mostra alla Fondazione Marconi di Milano.
A conclusione del programma espositivo 2017 la Fondazione Marconi presenta una mostra dedicata a Enrico Baj, figura di primo piano nel panorama artistico contemporaneo, ed aperta fino al 27 gennaio 2018. Erede dello spirito surreal-dadaista e sperimentatore di inedite tecniche e soluzioni stilistiche, Enrico Baj promuove nel 1951, assieme a Sergio Dangelo, il Movimento Nucleare. Nel 1953 conosce Asger Jorn con il quale fonda il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista, schierandosi contro la forzata razionalizzazione e geometrizzazione dell’arte. A partire dagli anni Cinquanta è presente sulla scena internazionale e, in particolare, espone regolarmente a Parigi. Fa il suo debutto negli Stati Uniti dove espone nel 1960 e dal 1967 inizia a collaborare con lo Studio Marconi. In Francia André Breton lo invita a esporre con i surrealisti e nel 1963 gli dedica un saggio pubblicato sulla rivista “L’oeil” di Rosamond e George Bernier. Artista geniale nell’utilizzo della tecnica del collage, che per lui ha origini letterarie, ne fa uso alla maniera di Alfred Jarry che “era solito nella redazione dei suoi testi, introdurre frammenti di altri scritti, che venivano fatti funzionare in un contesto differente da quello per il quale erano stati scritti.”
Cifra distintiva della sua produzione sono le Dame e i Generali, personaggi nati dalla sua fantasia per introdurre una critica politica neanche tanto celata che risulta evidente quando inizia a realizzare i Comizi e le Parate militari. Assiduo frequentatore dello Studio Marconi Enrico Baj è stato uno degli artisti più rappresentati e amati da Giorgio Marconi, suo amico e gallerista. La mostra che questa volta la Fondazione Marconi gli dedica, organizzata in collaborazione con l’Archivio Baj di Vergiate, ha un taglio decisamente politico e pone l’accento sull’intento di denuncia sociale dell’artista milanese contro ogni forma di potere e sopraffazione. Il percorso espositivo segue un ordine più tematico che cronologico. Dai primi meccano degli anni Sessanta si passa a una selezione di famosi Generali e alla Parata a 6 (1964), mentre nell’ultima sala al pianoterra campeggia l’opera monumentale dal titolo: I funerali dell’anarchico Pinelli (1972).
L’installazione, lunga dodici metri e alta più di sei, frutto di tre anni di lavoro, è ispirata alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla finestra della Questura di Milano, dove si trovava in quanto sospettato di aver preso parte alla strage di Piazza Fontana. L’importante fatto di cronaca ebbe luogo a Milano il 15 dicembre 1969 e, ancora vivo nella memoria nazionale, rimane tuttora uno dei tanti enigmi irrisolti di quel tormentato periodo. “Mi si reclamava insomma una rappresentazione e rappresentazione ho fatto, affinché testimonianza resti del fatto, di lui, delle violenze subite, del dolore di Licia, di Claudia e di Silvia.” (Enrico Baj, 1972). “Più che dei suoi funerali,” precisa Baj parlando dell’opera nella sua Automitobiografia, “si trattava di lui stesso, dell’anarchico che precipitava al suolo su un ipotetico selciato, antistante una non tanto ipotetica questura. Sullo sfondo un gruppo di anarchici, a sinistra, e un gruppo di poliziotti, sulla destra dell’opera, si affrontavano: i poliziotti imbracciavano manganelli e fucili e caricavano il corteo degli anarchici…”. Ispirata in parte ai Funerali dell’anarchico Galli di Carrà, in parte a Guernica di Picasso da cui Baj riprende alcune figure rivisitando in chiave grottesca personaggi reali, l’installazione era ed è tuttora un’opera emblematica, di coraggiosa denuncia civile in un momento in cui gli artisti solitamente sceglievano temi meno compromettenti. L’opera doveva essere esposta nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale nel maggio 1972 ma il giorno stesso dell’inaugurazione fu ucciso il Commissario Luigi Calabresi e la mostra fu rinviata. Passarono 50 anni prima che fosse esposta nuovamente a Milano in quella stessa sede. Evidentemente qui non si tratta solo di un dramma privato. Baj racconta anche di una Milano difficile, e di un paese intero, segnati dalla delusione dopo la ricostruzione del dopoguerra, dalla violenza e dalle stragi di Stato. Al primo piano alcuni teli dal ciclo dell’Apocalisse creano una continuità con i Funerali dell’anarchico Pinelli che non è solo visiva. Concepita da Baj come un’opera composita, quasi come un puzzle aperto a struttura variabile, conserva molti riferimenti di comunicazione culturale con Picasso, Arp, Pollock, Seurat e altri ancora. Nata dopo l’esperienza della pittura nucleare, prende le mosse dagli Otto peccati capitali della nostra civiltà di Konrad Lorenz e rappresenta lo specchio di un mondo in degrado, “la rivelazione del male etico ed estetico della nostra società” (Gillo Dorfles 2001). Il percorso si conclude al secondo piano con una selezione di opere del periodo nucleare (tra cui Due personaggi notturni e Piccolo bambino con i suoi giochi del 1952), tema particolarmente caro a Baj sin dagli esordi, perché “non si può rimanere indifferenti alla bomba atomica, percepita come mostruosità e contrabbandata come futura fonte di energia”. Dal pericolo nucleare a quello del militarismo, dagli abusi del potere ai molti mali della contemporaneità, si passano così in rassegna tutte le grandi paure del nostro tempo, alcune delle quali tristemente attuali. Del resto, la parola “baj”, amava ricordare l’artista, in polacco significa “cantastorie”. Non è un caso se il percorso espositivo si apre con il Personaggio urlante (1964), recentemente esposto al Cobra Museum di Amstelveen (Paesi Bassi). L’intera opera di Baj, infatti, racconta e denuncia perché, in fin dei conti, come soleva ripetere lo stesso artista: “La pittura è una via – una via che ho scelto – verso la libertà. È una pratica di libertà.”
La mostra continua poi allo Studio Marconi ’65 con una selezione di opere grafiche.
Carlo Franza