Ricordo di Vittorio Bodini poeta del Sud nel cinquantesimo della morte.
“Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado”: così inizia La luna dei Borboni (Milano, Edizioni della Meridiana, 1952) di Vittorio Bodini (Bari, 6 gennaio 1914–Roma, 19 dicembre 1970), il poeta pugliese del Novecento scomparso a Roma il 19 dicembre 1970, esattamente cinquant’anni fa.E dunque ricorrendo il cinquantesimo della morte non potevo lasciar passare in sordina un poeta amico che scomparve due anni dopo la morte di Girolamo Comi (1968) altro grande poeta letterato italiano e nello stesso anno che persi anche un ulteriore grande amico-artista qual ‘è stato Vincenzo Ciardo, figura di chiara fama che ha svecchiato la pittura napoletana guardando ai francesi. Ebbene, Bodini docente di letteratura spagnola all’università di Bari e poeta di peso della nostra storia letteraria più recente, già nel suo primo libro di poesia manifestava grande interesse per il Sud, il suo Sud, alla pari di altri poeti italiani che hanno cantato in versi il Regno di Napoli e territorio dei Borboni, e cioè Alessandro Quasimodo, Alfonso Gatto, Rocco Scotellaro, Leonardo Sinisgalli e altri ancora, unitamente ai letterati Carlo Levi, Francesco Jovine, Antonio Pizzuto, ecc. Ma il Sud di Bodini è una terra circoscritta al Salento (provincie di Lecce – Brindisi- Taranto) e non all’intera Puglia, quest’ultima intesa come territorio delle Puglie (Capitanata/Foggia – Bari/Murge – Salento); lo attesta in una lettera a Oreste Macrì, datata Lecce, 1 febbraio 1950: “Ora questo Sud è mio; come le mie viscere; io l’ho inventato”. Lecce e il Salento, per Bodini luogo di giovinezza vissuta, di iniziazione letteraria, di miti e di sogni, di memorie antiche e di cultura popolare, è un luogo di amore-odio e una sorta di geografia letteraria in cui vivono due anime animate da pulsione e repulsione(“così sgradito da doverlo amare”), un rapporto di insofferenza verso la sua città- luogo provinciale e chiuso (“Noi viviamo nella più provinciale delle città di provincia, in una bassa servilità a tradizioni che esorbitano dai nostri limiti di sopportazione, rinchiusi come perle nell’ostrica d’un campanile una chiesa barocca una piazza con relativi caffè e colonna un giardino pubblico cinematografi, roba che non considero per il suo valore in sé e per sé, ma piuttosto come simboli della giornata provinciale, precisamente uguale alla successiva ed alla precedente. Simboli di sciovinismo paesano + bigotteria + statica pastasciuttesca + sentimentalismo + ruffianeria + maldicenza”), ma rapportata a una Firenze – città dove si laurea- dove vive l’ermetismo e l’apertura alla cultura europea (“M’ero lasciato dietro Lecce ancora troppo giovane e pieno di polemiche contro la immobilità della sua vita, e ora mi ero posto per intero dalla parte di Firenze, accettando il rozzo errore che la prima fosse una forma sbagliata rispetto alla seconda – e in questo errore concorreva non poco quella che era la cultura in auge (il crocianesimo?) di quei tempi; mi ci volle non poco tempo per rendermi conto che si trattava di due ipotesi altrettanto motivate e legittime dell’universo”. Mi sono chiesto quando Bodini ha avvertito l’interesse forte per la sua terra da divenire materia di poesia? Tutto è avvenuto nel clima fiorentino, o meglio nell’ambito di quel filone che è stato l’ermetismo a Firenze, nella chiusura sua alla “poesia pura” torre centrale degli ermetici, per esprimersi, nel rientro nel Salento nei primi anni Cinquanta, con una poetica tutta volta al reale, alla lievitazione del reale attraverso simboli, fantasmi e memoria geografica; lo fa con la fondazione della rivista “L’esperienza poetica” che fondò e diresse dal 1954 al ’56. Reinventa il Sud, la sua terra, i suoi confini, con il fervore di una fantasia lievitante; al 1946 risalgono le prime poesie e i primi racconti di Bodini dov’è primario il tema del Sud. Basti vedere tre liriche, pubblicate sulla rivista “Mercurio”col titolo Tre notizie dal Sud, e di due racconti, La stregoneria e Balletto delle fanciulle del Sud.
Balza evidente a chi legge i suoi testi che il Sud è fatto di respiro, atmosfere, paesaggi, abitudini, usanze e quant’altro incornicia questa realtà: lo si avverte già nella prima poesia della “Luna” con le case calcinate, il biancore, la condizione esistenziale che si prova nel Salento, nell’essere qui nel Capo di Leuca. Immagini ancor più rafforzate dopo un’esperienza della sua vita, la permanenza in Spagna, dove si trattiene dal novembre del 1946 all’aprile del 1949; lo si scopre in una poesia dal titolo Omaggio a Góngora : “Cordova è una dolce tempesta / di bianco verde e nero e in quell’accordo / di calce e di limoni e di freschi cancelli / trovo il mio Sud ma con più aperta coscienza / con più aperta tristezza e più valore”. Spagna e Salento hanno mille cose in comune, dal paesaggio alla religiosità e alle abitudini. In Spagna infatti si immerge nella realtà profonda di quella nazione alla ricerca del suo “spirito nascosto”(vedi a cura di A. Lucio Giannone il volume “Corriere spagnolo (1947-54)” (Lecce, Manni, 1987). E quando torna a Lecce nel 1949 Bodini ricerca, studia, filtra e promuove i termini identitari della sua terra promessa, unitamente alle costanti storiche, artistiche e antropologiche. Saranno queste le basi dei suoi due libri di poesia, La luna dei Borboni (1952) e Dopo la luna (1956), nei quali il Sud vive incorniciato di esistenza millenaria e condizione umana come s’è detto(“tutto il paese vuole far sapere/che vive ancora/nell’ombra in cui rientra decapitato/un carrettiere dalle cave. Il buio,/com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono/le luci delle case e dei fantali”- da “Foglie di tabacco”), balza in primo piano il motivo del Sud, che arriva a diventare metafora di una tragica condizione umana ed esistenziale. La stessa architettura leccese, quel “ Barocco del Sud” com’è titolata una prosa, non è un distintivo interiore di questa terra e di questa popolazione, semmai -a suo dire- è un’ostentazione decorativa che serve a coprire il disperato grido di abbandono, di vuoto e di isolamento, di separatezza dalla nazione Italia; ecco alcuni memorabili versi, esemplificativi di ciò, di una poesia bodiniana, Xanti-Yaca, tratta sempre da Dopo la luna: “Al tempo dell’altra guerra contadini e contrabbandieri / si mettevano foglie di Xanti-Yaca / sotto le ascelle / per cadere ammalati. / Le febbri artificiali, la malaria presunta / di cui tremavano e battevano i denti, / erano il loro giudizio / sui governi e la storia”.
Carlo Franza