Attraverso la scrittura gli etnografi descrivono i modi in cui le persone, in un qualche luogo e in un certo momento, percepiscono il mondo e vi interagiscono. Gli antropologi e i sociologi lavorano sul campo. Ne so qualcosa in proposito viste le mie ricerche su Rocco Scotellaro e i suoi Contadini del Sud. Ho tra le mani il libro del collega Professor “Bernardino Palumbo, Lo sguardo inquieto. Etnografia tra scienza e narrazione.  Marietti 2021, pp.211”.  Più che un metodo o la fase iniziale ed empirica di un procedimento conoscitivo teorico, l’etnografia si configura quindi come un viaggio nelle molteplici sfaccettature dell’esperienza. Dal moltiplicarsi (come sottolinea giustamente Palumbo: “A partire dall’apodittica affermazione di Clifford Geertz (‘What does the ethnographer do? – he writes’) […] e attraverso il moltiplicarsi delle riflessioni sulle sue diverse dimensioni […] i vari problemi legati alla scrittura etnografica e alle forme della rappresentazione antropologica sono stati per oltre un decennio al centro di accesi dibattiti» (p. 173)  e dal raffinarsi delle rappresentazioni etnografiche emergono anche nuove forme di riconfigurazione teorica del sapere antropologico, generose, aperte, comparative, critiche, ma soprattutto più sensibili alle dinamiche di potere, più attente alla storia e interessate a mettere in discussione le coordinate di fondo di quello stesso spazio pubblico nel quale l’antropologia dovrebbe tornare a coinvolgersi. Testimoniale  la scelta «poetica» ovvero lo stile narrativo di Palumbo, perché rende evidente come ogni scrittura etnografica sia anche una forma di narrazione del – e di riflessione sul – sé: “perché, con l’etnografia, nell’etnografia è anche di me stesso/a che inevitabilmente parlo e scrivo, del mio mutare nel tempo come essere umano e come studioso/a, della mia diversa implicazione nei mondi e con le persone con le quali ho condiviso momenti della mia e della loro vita” (pag. 12).  Il primo capitolo è incentrato sulla ricerca svolta in Sannio, una sorta di Bildungsroman ( della sua formazione per la stesura della tesi di laurea), il capitolo si apre con la telefonata che riceve da Italo Signorini, suo relatore di tesi e maestro, per proporgli un viaggio a San Marco per poi svolgere lì una ricerca sul comparatico. Il secondo campo, presenti  altri ricercatori sul campo (un collega, Mariano Pavanello, condividerà con lui questa esperienza), lascia vivere le sue esperienze ghanesi, gli Nzema che appartengono alla letteratura più generale sull’Africa occidentale. La ricerca sul campo in Ghana è breve, ma  intensa, come le intense  pagine dedicate a Mieza, lo “storico” interprete di molti degli antropologi che hanno lavorato lì. Parlare dell’informatore privilegiato Moke Mieza permette a Palumbo di riflettere sugli intrecci tra l’antropologia e la realtà. La vicenda biografica di Mieza ci racconta di un uomo che intesse abilmente rapporti di alleanza con il potere domi nante  dominante  e che gli permettono di costruirsi una solida posizione. Mediatore certo, la figura di Mieza si costruisce  complessivamente sui già complicati intrecci che il campo crea,   e su ciò che agli antropologi   interessa dell’interpretative turnInfine “U jocu”. Così si intitola il capitolo dedicato all’esperienza di ricerca in Sicilia. Riflessioni ampie ed esistenziali   su i giochi politici, sul tempo lungo della storia, sulla ritualità, la patrimonializzazione, la costruzione della mascolinità. Colpisce  una scena,  l’incontro con gli amministratori caricati di precisi stereotipi siciliani che vogliono doppiopetto scuro e magari persone di mezza età. E invece giovani, da un lato e dall’altro. Ecco cosa scrive Palumbo: “Io sono attirato dall’assessore ai beni culturali, Aldo, fisico (ancora) atletico, impostato. Guardo le sue scarpe da ginnastica e, da quelle, intuisco che sport doveva avere praticato: ‘Tu giocavi a pallavolo’, gli dico. Risponde di sì, senza alcun apparente segno di stupore. ‘E facevi il centrale’, proseguo – deduzione piuttosto semplice, per chi come me aveva giocato oltre vent’anni, vista la sua struttura fisica” (pag. 114).  Battute semplici,  complicità giocata su un comune passato sportivo e su una certa propensione politica. Ma l’antropologia scava comportamenti e azioni,  il gioco è più complesso, così come lo sono gli interessi in campo.  Il gioco mostra la  divisione  in due “partiti”, come  i fedeli delle due chiese, che organizzano due cicli rituali, spesso contrapposti e carichi di tensione. E partiti sono,  perché buona parte della politica locale si gioca  su questa contrapposizione e forma a livello locale.  E sul  prezzo di schierarsi: “D’altro canto, avevo oramai compreso come, nella scena locale, assumersi le responsabilità che si devono assumere in funzione della propria traiettoria sociale è passaggio decisivo nella messa in forma e nell’esibizione del ‘sé’” (pag. 156). La ricerca siciliana restituisce la densità umana  qui più forte che mai.  Il libro mostra pagine che hanno accompagnato  il percorso di ricerca dell’autore.

Un  prezioso volume, di rilevanza scientifica perché vissuto sul campo,  che offre alcuni modelli di ricerca etnografica nel Sannio, in Sicilia e in Ghana e si conclude con l’edizione critica di un testo poetico.

Ecco  il Sommario:  Introduzione. 1. Sannio: madrine e compari. 2. Ghana: le noci della. 3. Sicilia: u jocu. 4. Scritture. Ringraziamenti. Note sull’autore

Berardino Palumbo, professore ordinario di Antropologia sociale all’Università di Messina, ha condotto ricerche etnografiche in Ghana e in Italia. È autore di saggi pubblicati sulle principali riviste scientifiche e dei volumi Madre-Madrina (Franco Angeli 1991), Identità nel tempo (Argo 1997), L’Unesco e il campanile (Moltemi 2003), Politiche dell’inquietudine (Le lettere 2009) e Lo strabismo della dea (Ed. MuePaqualino 2018). Con Marietti 1820 ha pubblicato Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose (2020).

Carlo Franza

 

Tag: , , , , , , , , , , ,