Shozo Shimamoto, il giapponese che buca lo spazio con il colore, in mostra a Foligno.
“Un colore senza materia non esiste. Se in procinto di creare non si getta via il pennello, non c’è speranza di emancipare le tinte. Senza pennello le sostanze coloranti prenderanno vita per la prima volta. Al posto del pennello si potrebbe usare con profitto qualsivoglia strumento. Per iniziare, le nude mani o la spatola da pittura. E poi ci sono gli oggetti adoperati dai membri del gruppo Gutai: annaffiatoi, ombrelli, vibratori, pallottolieri, pattini, giocattoli. E poi ancora i piedi, o le armi da fuoco, o altro. E in tutto ciò potrebbe anche ricomparire il pennello, perché non vi è dubbio che in simili elaborazioni innovatrici qualcosa del passato torna in essere”. (Shozo Shimamoto | Bollettino «Gutai», n.6 Ōsaka, 1957).
A metà degli anni Cinquanta, l’artista giapponese Shozo Shimamoto [Osaka, 22 gennaio 1928 – 25 gennaio 2013], nella piccola città di Ashiya (Hyogo), inizia la sua avventura con un lavoro creativo realizzato in pubblico: un giardino dove lui e altri artisti realizzano opere, frutto di un’attività performativa nella quale il fare l’opera è sincronico al contemplare del pubblico, con tutte le interferenze di un evento in diretta. Allontanandosi dalla tradizione surrealista e dagli stimoli di Duchamp, il gruppo di artisti Gutai si afferma, gridando in nome di una nuova creatività che cede all’impulso.
Un’ampia retrospettiva sull’artista giapponese, a cura di Italo Tomassoni, si inaugura il 18 settembre alle ore 18 a Foligno al Centro Italiano Arte Contemporanea, dove resterà fino al 9 gennaio 2022. “SHOZO SHIMAMOTO / LE GRANDI OPERE” è un progetto della Fondazione Morra di Napoli, voluto e interamente sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Foligno, con il supporto tecnico, logistico e organizzativo dell’Associazione Shozo Shimamoto.
Uno sguardo attento e completo sul percorso del maestro giapponese, dalle prime innovative sperimentazioni degli anni ’50, fino alle performance degli ultimi anni. Se, infatti, gli anni ‘50 di Shimamoto sono tutti in Oriente, perché hanno luogo in Giappone, gli anni Duemila sono in gran parte in Occidente, perché è proprio qui che l’artista realizza alcune delle sue più importanti performance. La dialettica tra questi due momenti storici racconta di un singolare, importante ed unico processo artistico. Negli anni ‘50 Shimamoto inizia a lavorare come pittore e, proprio in nome di un nuovo modo di concepire e praticare la pittura, inizia a dedicarsi all’azione, che si trasforma progressivamente in happening. Viceversa, i grandi eventi italiani degli ultimi anni rivelano un percorso inverso: c’è una grande costruzione scenica con una sua autonomia spettacolare, che si riflette dentro la realizzazione di opere che di quel momento rappresentativo pubblico, sono il risultato. “Il tentativo è quello di allargare il più possibile lo spazio estetico del gesto, inglobare la terra ed il cielo. (…) In definitiva, Shimamoto è un nomade samurai dell’arte che riesce ad andare a bersaglio, assistito dal caso intelligente di un processo creativo che vuole bucare l’inerzia del mondo e dare energia alla comunità degli uomini”, scrive Achille Bonito Oliva.
Sono in mostra al Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno lavori di grande importanza storica, dalle prime opere con il gruppo Gutai alle esplosioni di colore dei lavori realizzati in Italia. La retrospettiva su Shozo Shimamoto intende evidenziare la grandezza della superficie pittorica su cui l’artista ha sempre agito, rendendo la dimensione dell’opera elemento che non ne costituisce la totale pienezza, ma confine da superare, a favore di una sempre più ampia visione della dirompente materialità. Tele che misurano dai quattro ai dieci metri coinvolgeranno lo spettatore in un percorso che dal colore si addentra al più profondo significato che sprigiona l’opera d’arte in un processo di creazione che va al di là di uno spazio definito. Perché è da sempre che nell’opera del Maestro giapponese la dimensione è considerata un punto di vista altro, l’opera si compone ad una distanza tale che tra cielo e terra il suo gesto artistico trova una connessione che va oltre il tempo e lo spazio.
Shozo Shimamoto nasce ad Osaka, in Giappone, nel 1928. In anticipo alla straordinaria apertura e Co-fondatore del gruppo Gutai con Jiro Yoshihara, Shimamoto è stato uno degli artisti più sperimentatori del secondo dopoguerra. Il Gutai, primo movimento artistico radicale del Giappone, si sviluppa dagli anni ’50 con l’intento di rinnovare la tradizione artistica giapponese. L’opera non è più un semplice supporto ma diviene trasposizione fisica dei gesti dell’artista che, come nell’action painting, fa dell’opera un’azione. Shimamoto, figura cardine del movimento, avverte l’esigenza di nuovi segni espressivi che trova nel gesto e nella materia. Le prime sperimentazioni artistiche, gli Ana (Buchi), risalenti agli anni ‘40, consistono in una serie di fogli di carta, coperti da uno strato bianco di colore, sui quali crea dei buchi. Dopo aver frequentato assiduamente lo studio di Yoshihara decide, con il maestro, di fondare il gruppo Gutai – Movimento d’Arte Concreta, nel 1954. In occasione della prima apparizione ufficiale del gruppo, avvenuta nel 1955 nella pineta della città di Ashiya, Shimamoto realizza una lamiera dipinta da un lato bianco e dall’altro blu che, frammentata in piccoli buchi, crea al buio l’effetto di un cielo stellato grazie ad una lampada. A questi primi esperimenti seguono Prego, camminate qui sopra (1956), una passerella di legno montata su un sistema di molle attraverso la quale il fruitore sperimenta attivamente la precarietà del camminare esistenziale, e Cannon Work, in cui il colore è sparato sulla tela attraverso un piccolo cannone, opera che costituisce l’inizio del percorso dedicato alla liberazione casuale dell’espressività della materia. Da lì a poco Shimamoto sviluppa la tecnica del bottle crash, che consiste nel lanciare bottiglie piene di colore sulla tela. L’opera diviene il risultato di un processo di relazione tra gesto e materia, tra azione e colore, il cui leitmotiv è la casualità e l’artista è attore e interprete di un’azione performativa che viene condivisa con il pubblico, testimone e completamento dello scenario di colore costruito dall’artista. Nel 1957 partecipa alla prima esposizione “Arte Gutai sulla scena” al Center Sankei di Osaka, dove mette in mostra i suoi lavori video e sonori. Sono anni in cui inizia a tenere mostre anche fuori dal Giappone in importanti istituzioni e gallerie, come lo Stedelijk Museum di Amsterdam e il Musée Cantonal des Beaux Arts di Losanna. Nel 1972, con la morte di Yoshihara, il Gruppo Gutai si scioglie e Shimamoto s’interessa alla Mail Art, pratica d’avanguardia che consta di invii di lettere, cartoline, buste e simili, innalzati al grado di artisticità da manipolazioni ad hoc e recapitati a uno o a più destinatari tramite posta. Shimamoto ne sviluppa una concezione personale: la sua testa rasata diviene il mezzo su cui scrivere, dipingere o apporre oggetti. Nel 1987 viene invitato dal Museo di Dallas a celebrare il centenario della nascita di Duchamp, per il quale proietta messaggi di pace e spezzoni di film sulla sua testa. Negli anni Novanta recupera la tecnica del Bottle Crash, riempiendola di nuovi significati, e realizza una serie di performance in America e in tutta Europa. Nel 1998 viene scelto come uno dei quattro più grandi artisti nel mondo del dopoguerra, assieme a Jackson Pollock, John Cage e Lucio Fontana, per un’esposizione al MOCA di Los Angeles e l’anno successivo partecipa alla 48a Biennale di Venezia con David Bowie e Yoko Ono. Nel 2004 realizza una performance in elicottero come anticipazione della successiva Biennale di Venezia del 2005. Nel maggio 2006 la Fondazione Morra di Napoli ospita una sua antologica “Shozo Shimamoto. Opere anni ’50-’90” inaugurata da una performance, nella storica Piazza Dante, in cui lancia sfere piene di colori su una tela, sollevato dal braccio di una gru e accompagnato al pianoforte da Charlemagne Palestine. Sue opere si trovano, tra le tante, nella collezione della Tate Gallery, del Centre Pompidou, della Galleria di arte moderna di Roma, oltre a essere presenti in quasi tutti i musei giapponesi. Muore ad Osaka nel 2013.
Carlo Franza