Casa Cavazzini. Museo d’Arte Moderna e Contemporanea  di Udine, ospita «La forma dell’infinito», una grande rassegna di respiro europeo che propone, fino al 27 marzo 2022 la visione di cinquanta capolavori, molti dei quali mai visti in Italia e realizzati dai più importanti protagonisti dell’arte negli ultimi due secoli.  Attraverso le opere di pittori come Claude Monet, Paul Gauguin, Paul Cézanne, Alfred Sisley, Henri Matisse, Dante Gabriel Rossetti, Michail Nesterov, František Kupka, Vasilij Kandinskij, Aristarch Lentulov, Natal’ja Gončarova, Odilon Redon, Maurice Denis, Jacek Malczewski, Mikalojus Čiurlionis, Nikolaj Roerich, Medardo Rosso, Umberto Boccioni, Pablo Picasso, Emilio Vedova, Ernst Fuchs, Hans Hartung e altri ancora, la mostra conduce il visitatore a riflettere su un tema fondamentale dell’esistenza: la grande domanda di infinito e trascendenza a partire dalla finitezza umana.

A cura di Don Alessio Geretti – sacerdote friulano, sue le annuali esposizioni di Illegio (Udine) e le mostre romane Il potere e la grazia (2009) e Il cammino di Pietro (2013) – la  mostra vede la collaborazione, fra gli altri, del Belvedere di Vienna, della collezione Peggy Guggenheim di Venezia e della Fondazione Solomon R. Guggenheim di New York, del Musée D’Orsay di Parigi, ma anche della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma o del MART di Rovereto, della Galleria Tretyakov di Mosca e del Museu Picasso di Barcelona, oltre alla presenza di opere provenienti da collezioni mai accessibili al pubblico.

Attraverso le sue otto sezioni – paesaggi mistici; la percezione della Trascendenza; il dramma della finitezza; l’uomo è una domanda; il sogno della vita invisibile; risvegliare lo sguardo spirituale; la sfida al niente; l’altitudine della coscienza – la rassegna, corredata da un ricco catalogo di oltre 240 pagine illustrate edito da Illegio, da la possibilità di accostarsi ad opere che è rarissimo appaiano in Occidente: come i tre dipinti di Nicholaj Roerich o i cinque dipinti di Mikalojus Čiurlionis, che eccezionalmente lasciano le loro sedi rispettivamente russa e lituana. La geniale visionarietà di Kandinskij sarà rappresentata da tre opere, una accanto all’altra, e tra essi «La Piazza Rossa» – altro prestito quasi incredibile concesso dalla Tretyakov di Mosca – considerata l’opera simbolo della svolta dell’artista, frutto di una sorta di estasi artistica, decisiva per la strada che da allora imboccò la creatività del genio russo. “Questa mostra è una possibile via d’accesso all’arte moderna e contemporanea, scoprendo che in essa si manifesta un’intenzione predominante: rendere visibile che l’infinito è in agguato dietro la prima apparenza delle cose e rendere evidente che nel cuore umano abita o un’immensa aspirazione all’infinito o un’acerba pena nel caso lo si ritenga irraggiungibile – scrive Don Alessio Geretti in uno dei saggi del catalogo -. Molta arte tenta di dare forma a una tale incantevole e struggente tensione che dimora clandestina negli atti e nei silenzi dell’uomo. Ma a quale infinito aspira l’uomo? A tutta la verità. A un bene che non deluda mai. A una bellezza che non sfiorisca. Ad amori e legami che superino la morte. Alla pienezza dell’essere e della vita. A Dio”.

Uno degli aspetti caratteristici della rassegna è il suo carattere di meditazione d’arte. Non si tratta di un approfondimento per pochi specialisti né di una mostra che sollecita le masse con i consueti filoni artistici di moda. «La forma dell’infinito» punta a essere un’introduzione al perché la pittura dell’Europa occidentale e orientale s’è incamminata sui diversi sentieri che, lasciandosi alle spalle l’Impressionismo e l’Espressionismo, hanno tentato di riaprire gli occhi dell’umanità per salvarci dallo scivolamento nella miseria spirituale, nell’ebrezza materialistica, nell’ incomunicabilità reciproca. Si tratta cioè di una “storia spirituale dell’arte”, che raramente è dato di poter leggere tutta d’un fiato di fronte a testimonianze così eminenti degli ultimi due secoli. Questo approccio alle opere d’arte è la firma tipica delle mostre nate ad Illegio, note non soltanto per la levatura dei capolavori che vi si ammirano, ma specialmente per il fatto che in esse il pubblico è sempre accompagnato da giovani guide che possono offrire una chiave di lettura iconologica e teologica in un approccio che offre una luce ulteriore sulle singole opere. Dai frammenti di luce di Monet ai sentieri intellettuali in Kandinskij, lo sguardo del visitatore resta imprigionato nel groviglio inestricabile di una tela di Vedova oppure, mentre osserva le opere di Redon, si trova avvolto in scenari che evocano il senso dell’immensità con la visita che diventa un viaggio dentro se stessi, non semplicemente l’attraversare stanze di un museo.

Fra i tanti artisti capaci di darci una possibilità di trovare la via d’accesso all’infinito e di lasciarne traccia in un’opera d’arte, merita una speciale riflessione quell’artista dal linguaggio fiabesco che fu Nikolaj Roerich, (San Pietroburgo 1874 – Kullu 1957). Pittore, scrittore, viaggiatore, diplomatico, instancabile cercatore di rivelazioni, la sua vastissima produzione d’arte e d’ingegno conta qualcosa come cinquemila dipinti e svariate centinaia di scritti, opere pervase dal persistente bisogno di vivere in stato di pellegrinaggio e di domanda. Nelle percezioni che suscita in ogni dipinto, forme e colori traboccano di trascendenza. Roerich era affascinato dalle dottrine filosofiche orientali, come dimostrano i suoi continui e lunghi viaggi in Asia e il ritorno dell’Oriente nei suoi quadri, tema precipuo immortalato soprattutto attraverso le cime innevate e silenziose del Tibet. Sostanzialmente Roerich coglieva la possibilità di una verticale armonia tra l’uomo e il creato, che possono e devono trovare la via di una congiunzione profonda quasi fossero due manifestazioni di un’unica coscienza cosmica. Come se il mondo esteriore fosse l’irradiazione dell’anima, o l’uomo un piccolo guscio in cui si compendia l’universo. In tal senso, il pittore russo può essere considerato, per certi versi, un portavoce della cosiddetta philosophia perennis, imperniata su alcuni assunti fondamentali tratti da varie e differenti dottrine, soprattutto esoteriche, che fissano lo sguardo sulla connessione tra realtà fisica e realtà metafisica, tra materiale e spirituale, tra umano e cosmico. Così, come si vede nei dipinti di Roerich, la realtà esterna non è più esterna, l’uomo e il cosmo sono legati in una simbiosi profonda che trova la sua migliore forma nelle innumerevoli immagini di maestri in meditazione tra le montagne colorate dipinte dall’artista, un paesaggio dai colori fantastici perché incantevole è questa vertiginosa congiunzione nelle profondità dell’essere: i colori di Roerich sembrano profondamente più accesi di quelli del reale, ma perché forse suggeriscono che siam noi ad essere spenti, siamo noi a non essere in stato di armonia con tutta la realtà. Giungere a quell’armonia non è tuttavia un percorso semplice, le cime innevate del Tibet rendono evidente quanto tortuoso ed arduo sia il cammino iniziatico che conduce ad inerpicarsi verso le altitudini della coscienza.

Carlo Franza

 

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