Torna a Roma Mario Giacomelli, con una mostra di sessantasei fotografie d’epoca che coprono l’intera carriera dell’artista, presentando alcune delle sue fotografie più iconiche e più datate accanto a lavori mai visti prima del periodo della maturità, gli anni ’90. Una mostra dal titolo “Mario Giacomelli. Il tempo di vivere” a cura di Katiuscia Biondi Giacomelli in collaborazione con l’Archivio Mario Giacomelli presso la Galleria Gilda Lavia di Roma, ed aperta fino al 31 dicembre 2021,  invita lo spettatore a scendere nel flusso creativo dell’artista e accedere alla sua visione del mondo e della fotografia.

La copiosa produzione di Mario Giacomelli è una sorta di lungo film della durata di un’intera vita e le fotografie ne sono i fotogrammi. Un tutt’uno che è racconto, sogno, memoria, linguaggio dell’inconscio, con cui il reale si impasta. Una fotografia pregna di vita, e della vita Giacomelli prende anche “le contraddizioni e le sbavature”. Pezzi di mondo che respirano l’infinito e cadono nelle profondità: “l’immagine è un prodotto di una forza interiore senza volto che esplode dentro lo spazio. Scompongo e ricompongo per significare” (M. Giacomelli, manoscritti anni ’90).

Nei continui capovolgimenti di senso, nei salti temporali, nella trasformazione della materia, messi in atto dall’artista nella sua arte alchemica, il mondo da lui fotografato si fa specchio di una dimensione più intima e più vera, depurata da ogni stereotipo e abbellimento, e si mostra con la crudezza degli oscuri e inconfessabili pensieri, e insieme si fa energia così potente da straripare in pura sensualità. Giacomelli infatti, vive e si esprime nell’ossimoro. Ama le contraddizioni, le stonature, la compresenza degli opposti. E proprio da questo, negli anni ’50, nasce il suo inimitabile rivoluzionario linguaggio fotografico, fatto di alti contrasti di bianco e nero portati agli eccessi, che in un’Italia neorealista e a suo agio nei toni di grigio della composizione garbata, risultò letteralmente spiazzante.

Dopo appena due anni dalla sua prima fotografia scattata, nel ‘55 la critica lo accolse come l’Uomo nuovo della Fotografia, mentre alcuni anni dopo, le sue opere furono esposte e acquisite rispettivamente dalla George Eastman House su invito di Nathan Lyons (1963) e dal MoMA di New York sotto l’allora direzione di John Szarkowski (1964).
In Italia, il mondo fotoamatoriale – da cui Giacomelli veniva – fu così scioccato dal suo stile, che si verificò un effetto eco dei suoi alti contrasti in b/n. Ma fu proprio la sua concezione della fotografia e il suo modo di rapportarsi a essa ad aver sorpreso la critica di quegli anni: una fotografia né oggettiva né soggettiva che si aggrappava, come mai prima, alla concretezza del mondo, restituita più vera del reale.

“Entrare sotto la pelle del reale” amava dire il fotografo, e lo continua a ripetere oggi l’Archivio Mario Giacomelli, come un mantra, pensando che questo sia il fulcro del discorso giacomelliano, rimarcando la portata contemporanea di questo grande artista, in ogni progetto che promuove o a cui collabora, come in questo caso presso la Galleria Gilda Lavia di Roma.

L’intento della curatrice della mostra, Katiuscia Biondi Giacomelli, nipote dell’artista e direttrice dell’Archivio Mario Giacomelli, è stato di “rendere presente il personaggio, l’uomo e l’artista, che ha creato per noi tanta bellezza. Per questo, la struttura della mostra, attraverso la scelta dei materiali e la sequenza delle opere, non segue un ordine cronologico né una divisione in serie, ma si concentra semplicemente sul flusso delle immagini, vivida manifestazione dell’incontro primigenio tra soggetto e mondo, quando si guarda con il cuore ancor prima che con gli occhi”.

E proprio per continuare a guardare con l’anima, Giacomelli, seppur acclamato e presente nelle collezioni permanenti dei più grandi musei al mondo, ha sempre sentito di dover restare nella sua piccola città di mare, Senigallia (Marche), fuori dal chiasso delle metropoli, attaccato alla sua terra e alle sue memorie, lontano da ogni distrazione. In lui, arte e vita coincidono e si condizionano a vicenda, e persino il suo modo di parlare fatto di evocazioni ci riporta al suo essere uomo e fotografo.
Un contributo audio, trasmesso in loop in galleria, ce lo fa ascoltare, nel suo particolare modo di esprimersi, che trasforma anche le parole in immagini. I pensieri sulla fotografia gli ronzavano in testa continui e imperativi per non distrarsi mai dal suo mondo creativo.

La mostra si sviluppa intorno al tema del rapporto uomo/natura, che è il tema della produzione giacomelliana, insieme a quello del tempo, e non si è voluto lesinare sul numero delle opere esposte, per arrivare a toccare le molteplici sfumature in esso racchiuse. Sarebbe riduttivo dividere questo percorso in capitoli, perché è della totalità che la fotografia giacomelliana si nutre, ma in effetti la mostra ha un andamento meandriforme. Segue i moti dell’animo di Mario Giacomelli, che si innalzano sui picchi dell’infinito, per poi volatilizzarsi nell’ineffabilità della poesia, per gonfiarsi di sinestesia e materia, e ancora, ghiacciarsi di fronte alla morte e alla disgregazione, abissandosi nell’incognita, per poi di nuovo scaldarsi di fronte alla piena bellezza dell’amore e della terra, della materia della Madre terra.

Giacomelli, senza mai smettere di cercare il posto dell’uomo nel mondo, in mezzo a tutto questo, lui stesso si sente “cosa tra le cose”, parte di un tutto, e qui le gerarchie e le definizioni perdono consistenza e tutto sembra tornare in uno spazio ancestrale, indistinto e accogliente, quello che per un’intera vita l’artista ha rincorso e fatto emergere dalla sua fotografia. In ogni fotografia lui è presente come figurazione del suo stato d’animo nell’incontro con il reale, poiché non esiste oggetto senza chi lo guarda e viceversa. E come apice di un percorso, nel periodo della maturità, l’ultimo decennio della sua produzione interrotta solo dalla morte (2000), l’artista entra fisicamente in scena, con l’autoscatto, veramente cosa tra le cose, e si fa regista e attore di questo film.
Per tutto questo, la curatrice della mostra definisce l’arte fotografica di Giacomelli “performativa”, in virtù dell’altissimo grado di ritualizzazione dell’atto creativo, cercando di dare seguito alla bizzarra affermazione di Giacomelli, uno dei più grandi fotografi al mondo, quando, in maniera provocatoria e divertita, ma anche profondamente seria, diceva: “Io non faccio il fotografo, non so farlo”.

Carlo Franza

 

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