Il linguaggio artistico di Vincenzo Agnetti alla GAM di Torino
La GAM di Torino presenta la mostra dedicata a Vincenzo Agnetti (Milano, 1926 – 1981), quinto appuntamento del ciclo espositivo nato dalla collaborazione tra l’Archivio Storico della Biennale di Venezia e la VideotecaGAM e volto a testimoniare la stagione iniziale del video d’artista italiano tra anni Sessanta e Settanta.
L’esposizione a cura di Elena Volpato affronta attraverso poche, irrinunciabili opere un aspetto centrale del lavoro di Agnetti: la sostituzione tra parola e numero come ultimo grado di analisi critica e azzeramento del linguaggio. Il tema emerge nelle sue opere a partire dal 1968 con la realizzazione della Macchina drogata, una calcolatrice che traduce i numeri digitati in sequenze di lettere che si combinano senza alcun significato.
Una delle più note frasi di fulminante ma paradossale chiarezza che Agnetti ci abbia consegnato afferma: Una parola vale l’altra ma tutte tendono all’ambiguità. Sulla via dell’azzeramento di ogni strutturato sistema culturale, il passaggio successivo non può che essere la verifica di un ancor più radicale ipotesi: un codice vale l’altro ma nessuno veicola significati. La parola è ambigua e ogni esercizio di traduzione ne è la riprova. E i numeri, che comunemente ci appaiono come un alfabeto universale e come elementi di un linguaggio esatto, si mostrano nel lavoro di Agnetti altrettanto deserti di ogni capacità di comunicare significati.
Nell’esposizione un’opera della serie Assiomi, realizzata nel 1969, mostra sotto una sequenza di lettere rovesciate ed elevate a diversi valori numerici, una frase incisa: Quando le parole si elevano a valori di numeri i numeri valgono le parole. L’uno e l’altro codice, lettere e numeri, si trovano in posizione di simmetrico rispecchiamento, visivo e concettuale. Se sussiste una promessa di intensità, un sentore di dimenticato fondamento, può trovarsi solo nello spazio tra di loro, in quel nero compatto della bachelite che sembra arretrare nel tempo, come volesse sottrarsi alla funzione di supporto agli instabili segni bianchi. Il nero che occupa il centro e la maggior estensione dell’opera è una delle molteplici forme di quel vuoto attorno al quale si raduna tutta l’intelligenza dell’opera di Agnetti. Un vuoto nato dal voluto collasso di tutti i linguaggi e tuttavia aperto alla ricerca di qualcosa, forse un’eco, un rimbombo sonoro che abbia a che fare con l’interiorità del senso e non con la formulazione di un significato.
Il tema della permutabilità di parole e numeri giunge a compiuta espressione nel 1973, anno di realizzazione del video presentato in mostra, Documentario N.2, girato da Vincenzo Agnetti presso il suo studio a Milano. Nell’arco di pochi minuti si assiste al passaggio dalla messa in scena dei più tipici codici didascalici del linguaggio documentario all’ermetico prodursi della voce dell’artista che pronuncia un discorso fatto unicamente di numeri e diverse intonazioni espressive, mentre le immagini passano dalla ripresa fissa di una sequenza numerica trasformata in pattern visivo allo schermo nero fino a che, in quel buio, il suono si interrompe come per l’improvviso incepparsi di un nastro audio.
Il video, come e ancor più del libro d’artista, offre ad Agnetti la possibilità di sovrapporre, e così elidere, più linguaggi e più elementi: immagini e buio, testo parlato e scritto, lingua italiana e inglese, numeri arabi e forme geometriche, nitide riprese in movimento e immagini sfocate a camera fissa, dettagli di opere dell’artista inframmezzati a oggetti e strumenti di lavoro. Tutto si mescola, tutto si contraddice e nello stacco tra l’uno e l’altro elemento contrapposto, si fa largo la percezione del vuoto sottostante.
Il 1973 è anche l’anno di realizzazione di Frammento di Tavola di Dario tradotto in tutte le lingue, dove l’evocazione di un passato abissale si presenta con i caratteri della scrittura cuneiforme per confrontarsi con una sequenza numerica, linguaggio del presente tecnologico. La linea di confine tra l’una e l’altra immagine è uno iato nel tempo che rende ancor più profondo l’evidente tradimento che si nasconde nella promessa di una traduzione universale. L’opera nella sua semplice ieraticità è la rovesciata Stele di Rosetta che l’artista ci consegna per scardinare di ogni passato e futuro linguaggio la presunzione illusoria di possedere le chiavi del significato. Si desidera ringraziare Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT a cui si deve l’acquisizione dei libri d’artista esposti in mostra, parte del Fondo Giorgio Maffei presso la GAM, l’Archivio Storico della Biennale di Venezia, l’Archivio Vincenzo Agnetti, Emilio e Luisa Marinoni.
Carlo Franza