“Tutto è intimo”, scriveva Friedrich Hölderlin. Anche il fuori, realtà esteriore. Anche il paesaggio de “I luoghi persi” (Crocetti editore, 2022) di Umberto Piersanti che ci ripropone un libro ormai divenuto centrale dell’intero suo percorso poetico; fa vivere e rivivere un paesaggio divenuto arte o mondo che è creazione, è l’una e l’altra cosa. La poesia, intesa come scoperta delle radici, del vissuto, della memoria; la poesia che attraversa e rivela la realtà.

Acqua e cielo, terra e spazio, natura e piante, morte e tempo, vita e dolore, questi i confini in cui si muove la pietà di Umberto Piersanti guidata dal vissuto e dalla memoria.  Il filo dell’esistenza corre a rintracciare l’innocenza e la purezza della natura che ci circonda, anche in Piersanti come lo era già stato per Pascoli, mostrano taluni lemmi-spia che lasciano leggere la dimensione tragica della realtà del poeta e della sua memoria-immaginazione.

La sua esistenza qui in questi versi  si consuma in un vivere inquieto, in quella natura che gli ruota attorno da sempre, qui c’è anche l’atmosfera del “natio borgo selvaggio”, perché le parole svelano la meditazione, il mistero, ne fanno cornice i termini  botanici (l’anemone, ciclamini, edera, sambuco, timo, la bersigana, bacche, favagello, l’angelica, fiordaliso, il rosolaccio, ranuncolo, asfodelo, il caglio giallo, la centaurea, la veronica azzurra, il pungitopo, ecc.) e gli animali scovati  sull’Appennino (i merli, lo sprovinglo, la serpe nera, i caprioli, il lupo, la cornacchia, i verdoni, il cuculo, ecc. ) documentano  una ricerca effettuata dal poeta  allo scopo di penetrare  nell’intima essenza della vegetazione e quanto in essa vive,  tutto è testimone  del suo supplizio e canto, per far ritrovare a Piersanti i ricordi indenni  che il tempo riconduce:  “O casa di mia madre  sulle Cesane/bella giù per il fosso,/coi campi, gli alberi di noce, la bersigana,/…o casa di mia nonna sotto Camorciano/ con i meli, i meli colmi, gli alberi, le robe/ o casa di mia nonna  a undici anni!/ricordo  che una volta m’ammalai / …”. Non di meno la luce,  la luce delle Cesane, la luce dei luoghi persi, lassù tra la solitudine dei pastori e dei contadini  devotamente intenti a raccogliere la legna,  fa ritrovare  al poeta l’antica dolcezza  resa leggendaria dai misteri di quegli spazi, di quei luoghi avvolti  da connotazioni stagionali  come  “In tempi diversi sull’Appennino”, e di stagioni esistenziali arrotolate in un gomitolo: “ madre ch’eri fra tutte la più gentile/persa  con le tue amiche in fondo al fosso/lunga la treccia  sul tuo corpo snello/scende fino alla vita,…/…”. Spesso frammentata questa poesia piersantiana, in una accensione metaforica,  con pause sintattiche,  e la tecnica degli a-capo  che segnano la persistenza di prosa-poesia, si fa coscienza della propria irrequieta inchiesta esistenziale, laddove nei versi l’elaborazione dei propri miti( le Cesane, la notte, i boschi, le nuvole, la luna, la famiglia, la nonna, la madre, ecc.) fissano la scrittura in quelle ossessioni  emerse dal magma psichico, in quel fremito consapevole dell’autoisolamento, in quella esasperata materia inventiva che qui ne “i luoghi persi” richiede una coscienza etica dello scrivere, visibilmente viva. E’ una prova impegnativa questa de “i luoghi persi”, uscita nel 1994, con poesie scritte  tra la seconda metà degli anni Ottanta   e i primi anni Novanta, e oggi riscoperta,   pur con una sezione di poesie inedite in chiusura libro, giocata tra immobilità e movimento, superficie e profondità, come antinomie della durata spazio- temporale,  e ne trova la misura segreta in un’armonia musicale mossa da un’accelerazione ritmico-semantica  segnata dalla durata  pacata della raffigurazione paesistica. Il miracolo è in questi luoghi rivelati come misteri e di questi misteri si fanno unica essenza; l’illuminazione visionaria apre alla solitudine, al silenzio, alle figure care come la nonna, ai luoghi-istanti in cui il tempo è sospeso, archetipi e miti già percepiti nell’infanzia.   

La genesi della poesia piersantiana oggi vive ancora la crisi della metrica primonovecentesca, ne è naturale erede con soprattutto lo sperimentalismo di certe e audaci testure di Pascoli, all’interno di quella mallarmeana cris du vers, volta a radicalizzare l’ambiguità metrica del poème en prose traendone nuclei metrici tensivi. Poeta-narratore il nostro Umberto Piersanti, narratore e poeta di geografie quotidiane, di luoghi amati e vissuti, e questo suo visivismo tattile, nel farsi finalmente vero e proprio visionarismo, muove da mediazioni ermetiche, lascia scoprire questo canto bucolico, idillico, classico negli elementi che lo caratterizzano e nelle componenti mitiche degli archetipi che lo generano. Nostalgia, evocazione, rimpianto, dolce ricordo, struggente catarsi fisica e psichica. La regressione memoriale, i moduli figurativi del divenire( “vola la gazza blu in lontani boschi/passammo il cielo dell’atlante immenso/la lunghissima striscia di cartone/turchino, viene dopo le  figure/ di terra e d’erbe, di corsi d’acqua chiara/ solo la fa diversa la gran bambagia/ che s’addensa bianchissima,…”) la continua dissolvenza  del visibile in arcane figure vegetali e animali,  o figure familiari (la madre, la nonna Fenisa, il nonno Màdio, il piccolo Jacopo)   tessono la cornice dell’apparenza che si rivela come immobilità del ripetuto e del ripetibile, nello spingersi  in questo canto del destino dove  il tempo poetico è sprofondato nello spazio vissuto (“…la prima volta Jacopo ha toccato/la neve con la mano ai Cappuccini/non gli bastò il bicchiere che la madre/ha riportato colmo a quella stanza/dove stavamo in tre nel letto caldo/fuori la luna  gela sulle foglie/ e Jacopo ripete che oltre il muro/c’è stata la Fenisa che c’è morta/prima sapeva che quando è vecchio molto/chi si mette in viaggio non ritorna/…”).   Le Cesane  sono il simbolo del solipsismo  del poeta, con la metafora del suo isolamento interiore  che  colloquia lì  tra alberi, macchia  e cielo, montagne e dirupi; i contorni del paesaggio si rendono più visibili e  riconoscibili, quelle  terre tra Urbino e Fossombrone, le Cesane,  hanno in Piersanti  un nuovo sussulto  dove una percezione non barocca  e non surreale  dell’oggetto osservato, lascia vivere la certezza del suo esserci e il controllo  della meditazione pur severo  come il farsi stesso dello scatto poetico (“…vede il pastore l’ombra larga e fitta/mette la faccia proprio sotto il fiore/subito s’addormenta, quel veleno/nella pace che inganna lo sprofonda/quando si sveglia e vede/gli agnelli intorno/ha perso ormai del tutto la memoria/e non sa più chi è/che deve fare”).   Una terra nel vento e nel silenzio, con i suoi fiori boschivi, i monti e i dirupi, i sentieri e le nebbie, le pietre e i volatili, la nascosta bellezza, l’incontaminazione della natura, un nuovo mondo, un paradiso e una terra di sogno.  Qui il cronos è perduto e i fiori  hanno una realtà misteriosa, mentre i paesaggi sono consumati dalla luce,  e si percepisce la muta presenza di Leopardi,      perché gli ambienti diurni e le sensazioni notturne, il mare in lontananza, la casa dell’infanzia e la nonna e il piccolo-grande  Jacopo ( “…mi resta una tua foto dove sei/ con Jacopo  che a un anno era stupito/ per i volti diversi e così i luoghi/…”), tutto è sensibilità  e memoria,   e la speranza scava  nel profondo della paternità, sicchè  la sofferenza  riceve una sua spiegazione  e il dolore  sentito intimamente prima nella carne e poi nello spirito  raggiunge una dizione universale (“ io non avevo  mai capito/ da dove l’anima viene tra gli spini/ ma l’anima è piccola/fatta d’aria/passa tra gli spini e non si graffia/”.) e per il miracolo della poesia si fa patrimonio  di quanti  vi riconoscono  il proprio tormento e la propria consolazione.  

L’esistente è braccato, quanto più il verso è vissuto, tanto più si rivela fuggevole. La parola come ricerca di certezze, e le occasioni, la vita, l’esistenza, il vissuto, hanno imposto un lessico che pare scoperto per la prima volta; non è un ripensamento poetico che a distanza colora un tempo di memoria, è l’Umberto Piersanti al contatto aspro con la natura che porge parole isolate nella loro elementarità   grezza eppure musicale, impaginata tra lembi di silenzio, sillabata. Al centro della poesia piersantiana vi è il poeta che ridona a ogni vocabolo un rilievo e un valore insostituibili. Il mondo descritto, quel fazzoletto di territorio dove il poeta è nato e vissuto, dove ricordi e memorie, figure care e amicizie, si ritrovano nei versi a rispondere di squilibri, di stupore, di sofferenza, di armonia, trafilano la ricerca esistenziale di Piersanti. Nostalgia, evocazione, rimpianto, dolce ricordo, struggente catarsi fisica e psichica; ancora una volta Umberto Piersanti ci svela questo canzoniere prezioso, di versi di vita, persino “d’altre vicende ancora/e più lontane, t’avrei narrato/ della gente e i campi da dove vieni/la parte del tuo sangue che non sai/…”.

Carlo Franza      

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