La poesia di Giorgio Manganelli. “Un uomo pieno di morte” tra neosperimentalismo e neoavanguardia è il libro edito da Graphe.it Edizioni
Nel panorama letterario del Novecento, Giorgio Manganelli si è fin da subito imposto come figura autonoma e inevitabile della narrativa italiana. La sua lingua, così caustica, irriverente, piena di inventiva ed eversione, ha eretto quest’autore a modello per tante generazioni a venire, specie quelle di certa neoavanguardia. A 100 anni dalla nascita (1922-2022) di Giorgio Manganelli è preziosa ancora la sua presenza, attraverso testi, per interposta persona grazie alla casa editrice Graphe.it Edizioni (pp. 64,2022) che proprio in occasione del compleanno del “Manga”, il 15 novembre scorso, ha dato alle stampe “Un uomo pieno di morte”.
Tuttavia, la sua produzione poetica, senza dubbio marginale ma non per questo meno rilevante rispetto alla più vasta attività narrativa, è a oggi ancora poco conosciuta, finanche da quei lettori più devoti al geniale scrittore. E se nella narrativa Manganelli apriva spesso un varco introspettivo e tridimensionale sulla realtà e sull’esperienza umana, la sua poesia è invece pervasa da un tono elegiaco, specie nelle primissime prove, che si bilancia però a un nichilismo di fondo che invece è perno fondante di tutta la storia letteraria manganelliana.
A cent’anni dalla nascita, viene qui proposta una selezione delle migliori poesie scritte da Manganelli in tutto l’arco della sua vita. Il lettore potrà dunque trovare una voce “inedita”, un Manganelli dai toni più sublimanti e contenuti, sospeso sempre tra la certezza di una fine terrena e l’incertezza del vivere comune di tutti i giorni.
Una sorta di compendio poetico sull’esistenza e sulla sua aberrazione, che fin dal titolo (Un uomo pieno di morte) fa intendere quanto la poesia per Manganelli sia stata non solo la musa iniziatica di tutta una folgorante esperienza artistica, ma anche il rifugio stesso dalla morte e dalla sua continua compulsione alla fine. L’agile librino accoglie una selezione ridotta di composizioni, poco meno di trenta, certamente di diversi periodi, bastevoli a esemplare un lavoro che risente di un certo neosperimentalismo e delle neoavanguardie. Di Giorgio Manganelli poeta, si sa che la sua musa ispiratrice più nota e poetessa a sua volta, è stata la mia amica Alda Merini, con cui, sebbene lei fosse appena adolescente, ebbe una relazione tempestosa, appassionata, forte e tragica e a tratti violenta, e che indubbiamente fece capire ad ambedue, davvero, cosa fosse l’amore. Totale e totalizzante, la tematica dell’amore nella poetica di Manganelli, nel senso che questo sentimento, pur accompagnato da tutte le sue più impensabili e variopinte varianti, è quasi l’unico tema trattato nei suoi componimenti, ad esclusione di certe prime prove giovanili portate avanti per imitazione dell’arte materna. Già in una delle prime odi della sua raccolta “Ti paragonerò dunque”, dedicata ad Alda Merini, ciò si mostra in toto; l’amata viene prima comparata, un po’ baroccamente e in linea con la tradizione, al giorno estivo e alla rosa, ma qualche verso dopo il poeta dalla tradizione si distacca con una violenza pari a quella di un trauma, accostando l’amata “al tetano che inchioda le mascelle,/ alla lebbra paziente/ che accima la carne indifesa”, e infine addirittura all’ulcera e perfino al tumore. È un amore molto particolare, quello che Manganelli descrive, sia nel panorama relazionale e sociale che sentimentale, non accoglie ma allontana, non beatifica ma condanna, non dà la vita ma la morte. Un amore che “va male”, appunto, e un amore anche privo di desiderio: “Niente si esaudisce, niente si desidera:/ tutti i desideri sono aboliti/ perché sembrano essere/ definitivamente appagati”; “Io mi divido/ in giacca e calzoni e cintura/ e ancora mi disgiungo/ in cravatta e camicia/ e mi scindo in cranio, in polmoni,/ in visceri e pube,/ e mi distinguo/ in ogni cellula/ che senz’amore s’accosta/ ad altra cellula…sugli scaffali di Dio/ s’impolverano i gesti possibili… stanno appollaiati come gufi/ i sentimenti impagliati”.
Vi si leggono nei versi miti greci, immagini bibliche, Eros e Thanatos, un’esistenza angosciante, un nichilismo assoluto e tanto altro; con una scrittura pregna di ossimori, chiasmi, sinestesie, anàfore, iperbati, metafore, una scrittura elegante e solenne, immersa in una atmosfera di immagini, personaggi e situazioni, blasfemie; realtà demistificate e taglienti (“igiene dell’anima è il coito”, “la carne è atea”), irriverenti, controcorrente, sprezzanti. Manganelli fustiga i costumi, l’apparenza e la falsità, il formalismo, consapevole che “un uomo che è pieno di morte/… ha una sua grandezza di gesti”. Manganelli, infine, viandante disordinato e solitario, scrive nella poesia “Signore” quasi una preghiera litanica, un’invocazione a Dio: “Signore/ un volto definito e chiaro, / altro non vorrei;/ non so se mio destino/sia parole o musica o silenzio;/ o sempre stare accanto/ all’aperta finestra ad aspettare/ di saper chi sia;/ non so quale la via, quale la casa/ che in così vasto intrico di destini/ tu hai dato. / Prima che l’ora venga tarda/ -quando ogni ombra lunga/ davanti a noi si stende come strada- fa che più non cerchi o mio Signore;/ perché io so /che alcuni si salvano vivendo;/ ma destini diversi/ si spiegano soltanto col morire”/.
Carlo Franza