E’ arrivata  a Bergamo la mostra di Laocoon Gallery & W. Apolloni dedicata ad Achille Funi: un omaggio al grande artista ferrarese che fu maestro alla scuola di Brera e affrescatore instancabile, non solo a Milano dove visse e operò, ma anche a Roma, nella sua Ferrara, antica città estense, a Padova e persino in Tripoli di Libia al seguito del conterraneo Italo Balbo. Con Bergamo però Achille Funi ebbe un rapporto molto particolare: nominato direttore – senza stipendio – dell’Accademia di Belle Arti, vi rimase per ben sette anni nell’immediato dopoguerra, durante i quali affrescò assieme ai suoi allievi d’accademia un impressionante numero di cicli pittorici. Nell’Accademia stessa, al Palazzo Comunale dove rappresentò la Battaglia di Legnano, alla Banca Popolare dove illustrò la Gerusalemme Liberata e la gloria dei bergamaschi famosi, e al Cinema S. Marco dove diede vita a scene di teatro antico e moderno. La mostra, precedentemente allestita anche a Milano, è ospitata presso la Galleria Previtali di Bergamo e sono esposti diversi cartoni – tra cui uno preparatorio per la “Battaglia di Legnano” – dipinti, disegni e una grande tavola a fondo oro lunga quasi cinque metri – “Il Parnaso” – sintesi e culmine dell’arte di Funi. La mostra è promossa dalla Laocoon Gallery di Londra, che accomuna il lavoro della Galleria del Laocoonte (Monica Cardarelli) sul Novecento figurativo italiano, con la tradizionale conoscenza antiquaria della galleria W. Apolloni (Marco Fabio Apolloni). La tappa bergamasca è stata resa possibile dall’eccezionale disponibilità della Galleria Previtali di Bergamo, che rappresenta una delle più antiche eccellenze dell’antiquariato cittadino. “Achille Funi: ‘900 Classico e Rinascimentale” comprende dipinti a olio come la monumentale “Venere Latina”, già esposta alla Biennale di Venezia del 1930, cartoni per affreschi come quelli per la chiesa milanese di S. Giorgio a Palazzo del 1931, oppure quello per “La battaglia di Legnano” affrescata nel 1950 nella sala consiliare del Municipio di Bergamo (Palazzo Frizzoni), disegni, e la smisurata tavola, raffigurante “Il Parnaso”, che Achille Funi tenne nella stessa aula di Brera dove egli insegnò tecnica dell’affresco fino alla sua morte.

Questa mostra privata e commerciale, al servizio del collezionismo pubblico e privato, coincide con la grande mostra istituzionale che Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, dedica ad “Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito”. Realizzata dalle curatrici dell’archivio Funi, Nicoletta Colombo e Serena Redaelli, e da Chiara Vorrasi. Questa grande antologica non è soltanto un doveroso omaggio della città natale all’artista che nel ‘900 ha così efficacemente contribuito a ravvivare con la sua arte il mito della sua originalissima anima rinascimentale, ma rappresenta il culmine di una “Funi renaissance” che da qualche anno a questa parte ha rinverdito la fama di Funi e il gusto per la sua arte neoclassica e neo-rinascimentale che a occhi postmoderni riappare fresca e nuova come forse nemmeno i suoi contemporanei, confusi tra battaglie artistiche e crolli d’imperi di cartapesta, seppero vederla.

La Galleria del Laocoonte è orgogliosa di aver contribuito, sebbene in piccola parte, a questa manifestazione, prestando il grande cartone per l’effimera “Sala dell’Eneide” che fu affrescata – e poi distrutta – per la IV Triennale di Monza del 1930. Il gruppo di Didone insonne per amore con sua sorella Anna fu composto per la prima impresa in cui Funi scoprì in sé stesso il grande frescante che doveva diventare. Pompeiano e fidiaco, il gruppo è reso moderno dallo spirito metafisico, dechirichiano, che inquietamente lo anima. Non a caso in esso si può vedere l’ispirazione per la terracotta monumentale, raffigurante la coppia femminile de “Le Stelle” di Arturo Martini, sorelle anch’esse, di due anni posteriore all’affresco di Funi. L’altro prestito è il cartone colorato per la “Vergine Annunciata”, affrescato per la Cattedrale di S. Francesco a Tripoli. La Madonna, che sul grande foglio preparatorio ha l’aspetto e la posa di un’elegante diva del cinema dei telefoni bianchi, è in realtà il ritratto della praghese Felicita Frai, che morirà a Milano centenaria nel 2010, amante e assistente di Funi dal tempo degli affreschi della Sala della Consulta del Municipio di Ferrara (1934-37), scaricata all’improvviso proprio dopo il loro lungo soggiorno in Libia.

La bionda Felicita Frai ha prestato il suo volto anche al personaggio di Parisina, eroina tragica protagonista di una delle pareti affrescate della Sala della Consulta a Ferrara. Giovanissima sposa del marchese Ferrara Niccolò III d’Este, ebbe una relazione adulterina con il figlio di questi, Ugo, suo coetaneo. Scoperti, entrambi gli amanti vennero fatti decapitare su ordine del tradito marchese, nel 1425. Lei aveva 21 anni, vent’anni lui. Funi li ritrae teneramente abbracciati in un pastello preparatorio per l’affresco, Ugo appare come un giovane androgino dalla nera chioma scarmigliata. Anche Ugo è un ritratto, quello di Leonor Fini (Buenos Aires 1907 – Parigi 1996), la futura pittrice surrealista che fu anch’essa di Funi assistente e ninfa Egeria. Oltre ai già nominati cartoni per la chiesa di San Giorgio a Palazzo, che raffigurano legionari romani che paiono discesi da un rilevo imperiale, si espone un disegno per la figura di S. Giorgio, nudo e legato, alla vigilia del suo martirio, delicatamente disegnato come in punta d’argento, sottilmente ombreggiato come un disegno tardo quattrocentesco.
Il cartone della Battaglia di Legnano, preparatorio per gli affreschi della sala conciliare del Municipio di Bergamo, mostra il momento in cui a Federico Barbarossa fu ucciso il cavallo nella mischia, e l’imperatore rischiò di finire catturato. La mischia è brutale come brutali le fisionomie dei combattenti, al modo di un Paolo Uccello che abbia perso il suo carattere di favola. La guerra, quella vera, recente, spietatamente moderna del 1940-45 è da poco trascorsa, ed è chiaro che l’artista non possa veder niente di bello in una battaglia se non la sua fine. La “Venere Latina”, titolata anche “Il nudo e le statue”, ritrae Venere rinata, resuscitata tra le rovine della distrutta classicità, frammenti di sculture e capitelli, così come la pittura raffigura la statua di Pigmalione che prende vita per miracolo divino: le gambe ancora di pallido marmo, il corpo già vivo e pulsante sotto il roseo incarnato. Esposto alla Biennale di Venezia nel 1930, è il manifesto del neoclassicismo funiano. La stessa illusione d’una mano maestra antica, su carta colorata scura, lumeggiata di bianco come una notturna apparizione argentata dalla luna, è il cartone di una musa, Talìa, la musa della Commedia. Discinta e scarmigliata come una Baccante, tiene in alto per i capelli una maschera comica così come la madre di Penteo, nella furia bacchica, tiene la testa del figlio spiccata dal busto nelle Baccanti di Euripide. Questa figura monumentale, alta più di due metri, è uno dei saggi più impressionanti di imitazione dell’antico prodotte da Funi, nel cartone più bella che nella sua realizzazione al Teatro Manzoni di Milano. Le Muse sono anche le protagoniste, con Apollo, della grande tavola a tempera, con fondo a foglia d’oro, dipinta da Funi nell’immediato dopoguerra. “Il Parnaso” èlungo quasi cinque metri e alto più di due. Sul fondo di una selvatica siepe d’alloro che pare strappata dalla parete di una villa pompeiana, si stagliano le nove sorelle, sovrastate dal dio della poesia e della musica, loro fratello. Tra esse vi è una statua marmorea di Venere e all’estrema destra un maturo pastore, certamente Giove che in questa forma si giacque con Mnemosine per nove notti consecutive, generando ogni volta una delle nove muse. L’ambiziosa composizione di Funi, che si propone come epigono novecentesco del Parnaso di Raffaello in Vaticano, di quello di A. R. Mengs a Villa Albani, e del meno noto affresco d’uguale soggetto che Andrea Appiani dipinse a Villa Reale a Milano, testimonia del costante amore dell’artista per la pittura Roma antica, per la quale si fece più volte pellegrino d’arte al Museo Nazionale di Napoli e a Pompei, dove la famosa Villa dei Misteri, uno dei cicli più belli e integri dell’antichità, divenne accessibile al pubblico solo nel 1931. Non sappiamo se il grande pannello del Parnaso di Funi sia stata una commissione non andata a buon fine. Di proprietà del pittore, fu custodita fino alla morte di lui nell’aula di Brera dove insegnava tecnica dell’affresco. Passata a Luigi Colombo, gallerista ed esecutore testamentario dell’artista, è passata nei primi anni ’90 in una collezione privata, da cui è emersa solo recentemente. Esposta alla mostra dedicata ad Ulisse a Forlì, torna ora a farsi ammirare nuovamente a Milano, dopo più di cinquant’anni. L’ultimo cartone esposto, alto più di tre metri, è anche legato a una delle ultime opere di Funi, gli affreschi per l’abside della chiesa di S. Antonio da Padova dei Frati Minimi di S. Francesco da Paola, chiesa distrutta dalla guerra e completamente ricostruita. Gli affreschi furono in realtà realizzati nel 1962 da due allievi dell’ormai settantaduenne maestro, e nonostante la sua supervisione e i ritocchi a secco con cui pure egli lì completò, essi non raggiungono la forza e la potenza del cartone realizzato dal maestro, vero e proprio dipinto a tempera su carta, grande nella misura e nell’intensità drammatica con cui Funi riuscì a immedesimarsi nella mente dei pittori del Trecento, facendo vorticare sullo stesso foglio dov’è appeso il monumentale cadavere di Cristo Crocifisso, i colori di un sole e di una luna che hanno lo smalto e la freschezza di un affresco cavalliniano. È giusto che Funi possa rivedere le sue opere: perciò la collezione romana Facce del Novecento ha prestato un autoritratto a olio “estivo” del 1955. Il rosso di una fetta d’anguria, la maglietta a righe, il cappello di paglia, le iridi scure a pallottola fanno pensare per un attimo a Picasso in Costa Azzurra, è invece Socrate Virgilio Funi, detto Achille, nel suo villino di Forte de Marmi.

Carlo Franza

 

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