L’esempio di San Carlo Borromeo che affrontò così l’epidemia di peste del suo tempo.Gesti oggi più che mai esemplari.
San Carlo Borromeo (1538-1584) è il compatrono di Milano insieme a Sant’Ambrogio, cardinale di Santa Romana Chiesa e arcivescovo di Milano dal 1565 al 1583; fu definito, nel decreto di canonizzazione, come «un uomo che, mentre il mondo gli sorride con le maggiori blandizie, vive crocifisso al mondo, vive dello spirito, calpestando le cose terrene, cercando continuamente le celesti, emulo in terra, nei pensieri e nelle opere, della vita degli Angeli» (Paolo V, Bolla « Unigenitus » del 1 Nov. 1610). E’ il mio santo, ne porto il suo nome, come la mia nonna paterna Carolina Stasi Franza che si recava spesso in preghiera dinanzi al bellissimo dipinto che lo ritraeva orante custodito nella Chiesa dell’Assunta in Piazza Mercato ad Alessano-Lecce. (La chiesa dell’Assunta si trova alla fine di via Alessio Comneno ad Alessano, la strada centrale della città antica, in prossimità della piazza Mercato; è stata costruita agli inizi del ‘600 ed ospitava la confraternita di S. Carlo Borromeo. Del cardinale arcivescovo di Milano, canonizzato nel 1610, vi è conservata una tela di buona fattura e di notevoli dimensioni con il santo orante e alcune scene della sua vita). E per tornare al discorso iniziale, per la Lombardia, per la Chiesa del suo tempo e per il Concilio di Trento, San Carlo Borromeo fu un grandissimo santo. Ebbe una forte devozione per gli angeli, questa devozione accompagnò la vita di San Carlo, tanto che il conte di Olivares, Enrique de Guzmán, ambasciatore di Filippo II a Roma, definiva «più angelo che uomo» (Giovanni Pietro Giussano, Vita di San Carlo Borromeo, Stamperia della Camera Apostolica, Roma 1610, p. 441). Da Storico dell’Arte ho memoria di come molti artisti, vedi Teodoro Vallonio a Palermo e Sebastien Bourdon a Fabriano, hanno raffigurato nei loro dipinti Carlo Borromeo mentre contempla un angelo che ripone nel fodero la spada insanguinata per indicare la cessazione della “terribile peste” del 1576. Per quest’epidemia, tutto ebbe inizio nel mese di agosto di quell’anno. Milano festeggiava e accoglieva don Giovanni d’Austria, di cui era stato nominato governatore. Autorità e cittadini erano in fermento per tributare al principe spagnolo i massimi onori, ma Carlo, da sei anni arcivescovo della diocesi, seguiva con vivace preoccupazione le notizie che giungevano da Trento, da Verona, da Mantova, dove la pestilenza aveva iniziato a mietere vittime. I primi casi di peste scoppiarono a Milano l’11 agosto 1576, proprio mentre vi entrava don Giovanni d’Austria. Quello che era stato il vincitore della Battaglia di Lepanto che sconfisse l’assalto dell’Islam all’Europa, seguito dal governatore Antonio de Guzmán y Zuñiga, temendone il contagio si allontanò subito dalla città, mentre San Carlo, che si trovava a Lodi per i funerali del vescovo, vi accorse immediatamente. Paura, confusione e panico avvolsero Milano, e l’arcivescovo Carlo si dedicò subito all’assistenza dei malati, mettendo in atto preghiere pubbliche e private. Dom Prosper Guéranger riassume così la sua inesauribile carità. Ecco come descrive, Dom Prosper Guéranger, questa carità e solidarietà che San Carlo mise in atto: “In mancanza di autorità locali, organizzò il servizio sanitario, fondò o rinnovò ospedali, cercò denaro e vettovaglie, decretò misure preventive. Soprattutto provvide ad assicurare il soccorso spirituale, l’assistenza ai malati, il seppellimento dei morti, l’amministrazione dei Sacramenti agli abitanti confinati nelle loro case, per misure prudenziali. Senza temere il contagio, pagò di persona, visitando ospedali, guidando le processioni di penitenza, facendosi tutto a tutti come un padre e come un vero pastore” (da L’anno liturgico – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, Paoline, Alba 1959, pp. 1245-1248).
San Carlo Borromeo era fermamente convinto che l’epidemia fosse “un flagello mandato dal cielo» per punire i peccati del popolo, un vero castigo divino e che fosse necessario utilizzare preghiera e penitenza. San Carlo con la sua autorità rimproverò le autorità civili per aver messo in atto solo mezzi umani piuttosto che mezzi divini. «Non avevano essi proibito tutte le riunioni pie, tutte le processioni durante il tempo del Giubileo? Per lui, ne era convinto, erano queste le cause del castigo» (Chanoine Charles Sylvain, Histoire de Saint Charles Borromée, Desclée de Brouwer, Lille 1884, vol. II, p. 135). Le autorità citadine che governavano la città si opposero alle cerimonie pubbliche, per paura che la riunione di più persone potesse dilatare il contagio, ma San Carlo Borromeo “che era guidato dallo Spirito divino” – racconta un altro biografo – li convinse diversamente portandone diversi esempi, tra cui quello di san Gregorio Magno che aveva fermato la peste che devastava Roma nel 590 (Giussano, op. cit. p. 266). A questo punto mentre la pestilenza dilagava e ammorbava la città, il Santo Arcivescovo ordinò dunque tre processioni generali da svolgersi a Milano il 3, 5 e 6 di ottobre, “per placare l’ira di Dio”. Il primo giorno il santo, nonostante non si fosse in tempo di Quaresima, impose le ceneri sul capo di migliaia di persone riunite, esortando alla penitenza, e finita la cerimonia mise in atto la processione diretta alla basilica di Sant’Ambrogio. Egli stesso si pose alla testa del popolo in processione, vestito della cappa paonazza, con un cappuccio, a piedi nudi, la corda di penitente al collo e una grande croce in mano; arrivato in Sant’Ambrogio fece una predica sul primo lamento del profeta Geremia “Quomodo sedet sola civitas plena populo”, puntando il dito sul fatto che i peccati del popolo avevano provocato la punizione di Dio. La seconda processione guidata da San Carlo cardinale di Milano fu alla basilica di San Lorenzo Maggiore; nel suo sermone egli applicò alla città di Milano il sogno di Nabucodonosor di cui parla Daniele, “mostrando che la vendetta di Dio era venuta sopra di essa” (Giussano, Vita di San Carlo Borromeo, p. 267). Il terzo giorno la processione si diresse dal Duomo alla Basilica di Santa Maria presso San Celso; San Carlo portava nelle sue mani, e alzandola al cielo, la reliquia del Santo chiodo di Nostro Signore, donata dall’imperatore Teodosio a sant’Ambrogio nel V secolo e concluse la cerimonia con un sermone dal titolo: Peccatum peccavit Jerusalem (Geremia 1,8). La peste stringeva la città, Milano appariva spopolata, ben un terzo dei cittadini era morto, gli altri erano in quarantena, molti non uscivano dalle loro case. L’arcivescovo Carlo ordinò che venissero erette nelle principali piazze ed incroci cittadini circa venti colonne in pietra sormontate da una croce- poi chiamate crocette- per permettere agli abitanti di ogni quartiere di partecipare alle messe e alle preghiere pubbliche affacciandosi alle finestre di casa. Riporto la cronaca del tempo: “Hoggi si è dato principio alla quarantena generale […] E poiché le persone stavano alla porta, si è fatto grida che non vi stiano, et assai presto un’altra che si tengano le porte serrate di dentro. Si piantano adesso altari in molti luoghi della città allo scoperto per dir messa in luogo che dalla finestra si possa se non udire, vedere; e si pigliano quelli siti che possano servire a più persone. In diversi luoghi poi, oltre le pitture che si fanno nelli muri con le immagini di San Sebastiano e di San Rocco, si piantano colonne grandi che c’hanno a starci sempre con le croci in cima”(da una lettera del 29 ottobre 1576 in A. Valente, La peste del 1576 in Milano. Notizie tratte dalle lettere di un contemporaneo, in Archivio Storico Lombardo, 1923, pp. 472-473.)
Uno dei protettori di Milano era anche san Sebastiano, il martire a cui erano ricorsi i romani durante la peste dell’anno 672. San Carlo suggerì ai magistrati di Milano di ricostruire il santuario a lui dedicato, che cadeva in rovina, e di celebrare per dieci anni una festa solenne in suo onore. Finalmente nel luglio del 1577 la peste cessò e in settembre fu posta la prima pietra del tempio civico di S. Sebastiano in Via Torino a Milano tuttora aperto, dove il 20 gennaio di ogni anno ancora oggi si celebra una messa per ricordare proprio la fine del flagello epidemico.La peste di Milano del 1576 fu similarmente ciò che era stato per Roma il famosissimo sacco dei Lanzichenecchi cinquant’anni prima: un castigo, ma anche un’occasione di purificazione e di conversione. Carlo Borromeo raccolse le sue meditazioni in un Memoriale, in cui scrive tra l’altro: “Città di Milano, la tua grandezza si alzava fino ai cieli, le tue ricchezze si estendevano fino ai confini dell’universo mondo (…) Ecco in un tratto dal Cielo che viene la pestilenza che è la mano di Dio, e in un tratto fu abbassata la tua superbia” (Memoriale al suo diletto popolo della città e diocesi di Milano, Michele Tini, Roma 1579, pp. 28-29). Il santo era proprio convinto che tutto si dovesse alla grande misericordia di Dio: “Egli ha ferito e ha sanato; Egli ha flagellato e ha curato; Egli ha posto mano alla verga del castigo e ha offerto il bastone del sostegno” (Memoriale, p. 81). San Carlo Borromeo morì il 3 novembre del 1584 ed è sepolto nel Duomo di Milano. Il suo cuore fu solennemente traslato a Roma, nella basilica dei Santi Ambrogio e Carlo a via del Corso dove ancora lo si venera. Innumerevoli chiese sono a lui dedicate, tra cui la maestosa Karlskirche di Vienna, costruita nel XVIII secolo come atto votivo dell’imperatore Carlo VI, che aveva affidato la città alla protezione del santo durante la peste del 1713. Durante i suoi diciotto anni di governo della diocesi di Milano, l’arcivescovo Carlo Borromeo si dedicò con altrettanto vigore a combattere l’eresia, che considerava la peste dello spirito, si era nel tempo della Controriforma e del Concilio di Trento. Secondo san Carlo, «da nessun’altra colpa è Dio più gravemente offeso, da nessuna provocato a maggiore sdegno quanto dal vizio delle eresie, e che a sua volta nulla può tanto a rovina delle provincie e dei regni quanto può quell’orrida peste» (Conc. Prov. V, Pars I). Questo excursus storico può essere ancor più oggi, nel tempo del coronavirus, riferimento significativo e ancòra per chi ha fede, crede e spera nella misericordia di Dio.
Carlo Franza