Franca Cecere e il respiro potente dei versi de “la luce che resiste”.
“La luce che resiste” (Musicaos Editore, Neviano, pp. 372, 2021) è il volume che raccoglie la produzione poetica di Franca Cecere, salentina del Capo di Leuca, amica di vecchia data, fin dagli anni Settanta del Novecento, tempo certo lontano ma più che vivo per i trascorsi di cultura e le vivaci colloquialità; raccolta scandita dal tempo che attraversa la vita di ogni uomo, snocciolata in tre capitoli, tre fasi del vivere e del vissuto, tre momenti temporali che sono Smarrimento (1995-2009), Accettazione (2009-2013) e Convivenza (2013-2021). La scelta dei sottotitoli della raccolta coincide con le esperienze e il vissuto della poetessa, momenti in parte riferiti agli eventi della sua vita, e in parte legati al mondo del lavoro in cui la poetessa si è misurata -tra insegnamento e psicoterapeuta nelle strutture pubbliche-, per cui la scrittura raccoglie l’uomo immerso nella propria storia individuale come storia di fatti, e partecipe della storia e della vita quotidiana di noi tutti. Tensione e contemplazione, versi autobiografici che hanno sposato il predicato della liricità, e altalenanti fra una dimensione frammentaria e decisamente espressionista e uno spazio crepuscolare e in parte “vociano” per via di mille metafore dell’intimità. Il lettore di poesia non faticherà d’avvertire queste pagine di intenso valore, di cogliere l’interiorità esplosa in mille frammenti, la condizione di assoluta precarietà esistenziale (La mia vita è colma/ di solitudine e pianto/ come la campagna nuda/…).
Gli elementi autobiografici si rincorrono lungo tutto il libro, muovendo spesso una scintilla di cortocircuito con il tempo e l’esperienza contingente, talvolta estrema dinanzi al dolore e alla morte, innervando poi quella traiettoria storica in cui si snocciolano gli eventi inscindibili dalla scrittura e dalla memoria. Rigorosa identificazione di immagini e memoria, poesia elegiaca, una poesia che esprime la sua irreparabile tristezza, il diario di un amore di madre (Brillano le stelle nel firmamento/ la luna espande/la sua luce bianca/ Io ti cullo dolcemente/ fra le braccia./). La stessa metrica frantumata in scansioni spazio-temporali accentua il respiro potente che emerge da questi versi de “la luce che resiste” (Giorno dopo giorno / piano piano/ sono passate le voci/ tutte le voci dei miei anni / ora forti come neve / ora leggere come petali / nel silenzio che mi circonda/ sento il loro eco lontano/ ma non posso più rispondere/ sono passate le voci/…).
Fatto straordinario della poesia della Cecere è intanto il suo incipit, il “giorno dopo giorno”, che sta a significare l’impegno esistenziale e conoscitivo, prendendo le mosse da un simbolismo non vago né mitologizzante, alla luce anche della poetica espressionistica in cui vivono avvolti soggetti e oggetti, attraverso vista, udito e olfatto, sinestesie che si intrecciano, in una disposizione riflessiva (Aspetto che venga qualcuno/ dal fondo della strada/ come quando eravate ragazze/ e la casa era piena di voci/ può darsi che prima di sera/ dalla strada qualcuno chiami/ mescolando il mio nome/ e il grido dei gabbiani/…). I versi svelano paesaggi, marine, orti, campagne, alberi, scorci di paese, tutto avvolto in una dolcezza inquieta, secondo un moto di progressione percettiva, uno stupor primigenio tra la cornice tutta romantica del cuore e la constatazione cruda oggettiva che il mondo esiste. La poesia è come sospesa tra la vita e la morte, logiche e filosofie che accompagnano l’esistenza dell’uomo, certezze qui vissute dalla poetessa in una procedura dove il tempo taglia la luce del vivere, la luce che resiste appunto, la vita che si aggrappa oltre la morte e il dolore, oltre i sacrifici dell’esistenza, e del procedere sempre, attraverso una dissezione e frantumazione delle fisionomie, degli oggetti e dei fenomeni. Lo sguardo e la mente, il senso della poesia come pane e manna giornaliera, il tedio e la stanchezza, in questa condizione limbale e purgatoriale che la Franca Cecere affida in parte a felici cromatismi paesistico-naturali, in parte a una storia domestica catturata e inserita in una cornice tra istinto narrativo, capacità di riflessione e realismo e teatralità. Il mistero della parola, svolta salvifica per la sua poesia di sposa e madre, e poi madre orfana (Donna/ madre/ figlia/ sposa/ genitrice/ d’Amore e di gioie/ Riflesso dell’Universo/ il suo cuore/ sublime sinfonia/dei Sentimenti/della Vita./ La tua presenza:/ scrigno/ d’immenso Amore/ e d’infinito Dolore./ È Arcobaleno/ su ogni sofferenza./ L’Amore è la condizione angelica/ dell’Uomo./ ), che muove l’amore come un germoglio avvolto di ambizioni spiritualistiche mettendo in luce un paesaggio dell’anima. La morte di una figlia è per lei sintesi del ricordo, un paesaggio nella notte, mossa da una memoria in senso ungarettiano (La tua stretta di mano…/ e ritrovarci un giorno/non so quando/ in un altro mondo!”).
Natura e paesaggio nel libro “La luce che resiste” di Franca Cecere si sciolgono continuamente in sentimento, un paesaggio che svela le qualità e i colori dell’anima; si coglie ampiamente il momento impegnato proprio laddove l’idillio descrittivo e sentimentale si apre la strada verso le esperienze drammatiche. E se quell’amaro discorso interiorizzato di estrema solitudine che si coglie, si immerge in uno scheletro di luce, è proprio quella “luce che resiste” a farsi strada e speranza nei simboli oscuri dell’umana incertezza.
Carlo Franza