Vorremmo subito indicarlo, letterariamente consapevoli, che più di un romanzo “Zucchero filato” di Valentina Pelliccia (Pagine Editore, 74 pagine, 23 euro) è un “racconto lungo” o “romanzo breve”, e possiamo senz’altro indicarlo in questo modo, senza nulla togliere o diminuirne la sua autentica preziosità, sulla traccia di altre grandi scrittrici del Novecento, da Anna Banti ad Anna Maria Ortese, cui si può apparentare la giovane scrittrice italiana.  E’ un romanzo oggi rieditato dopo ben vent’anni dalla prima uscita, ed ha mantenuto intatto il suo racconto-cronaca, il reportage, l’esercizio della verità. Interessante  e coraggiosa, aperta e onnivora, colta  e meditativa, la Pelliccia è oggi fra gli scrittori nuovi in Italia più innovativi  e intrisi di storia,  perché lascia scorgere la forza narrativa e umana (morale, se volete), capace di rievocare un evento, una storia,  con quel diverso tono che la distingue, e le figure, tra cui anche la principale, Colette,  attraggono il lettore, non lo stancano, lo fanno anzi partecipe  delle vicende dei personaggi,  ci ricordano certi modi di narrare  per finezze e sfumature sottili, certa letteratura italiana (l’Ortese) e straniera (la Woolf). Con “Zucchero filato” si scopre che la narrativa si è fatta più aperta, vive del suo e del nostro tempo, legata vorrei dire soprattutto a un mondo umano e morale che vede ogni giorno quasi modi più aperti e immediati di manifestazione drammatica:“Dalla porta semiaperta provengono le urla dei genitori. Rumori così forti da far vibrare le mura pallide, parole spezzate che feriscono e infine un breve silenzio. Quando papà e mamma litigano a lei viene spontaneo rinchiudersi nella sua stanza, nascondersi sotto le coperte e piangere”. E’ un’opera personalissima, per il contenuto e per la scrittura. Con la sua scrittura esaltata, febbrile, allucinata e insieme rigorosa, il libro si mostra grido contro l’orrore del tempo che corrode ogni cosa e la vicenda è l’occasione per raccontare l’oscura sostanza della vita, da cui Colette, la protagonista di “Zucchero filato”, vorrebbe fuggire e non può. E tutto ciò raccontato con una scrittura narrativa semplice e lineare, classica e senza costruzioni difficoltose di piani stilistici, senza intarsi e parentesi. Nel libro c’è poi una coscienza, un pensiero di fondo che scorre come una vena sotterranea in tutte le pagine per giungere, ad un certo punto, in superficie. Avventura e avventure quelle del libro legate non solo a una interiore psicologia dei personaggi, al loro essere sociale, ai loro legami con il mondo in cui vivono e, ad ogni pagina, un crollare di miti di fronte a quella realtà inarrestabile e complessa che si chiama “uomo” e un continuo riproporre la condizione umana dei personaggi, ad iniziare dalla giovane Colette, che  scrive sul suo diario: “Caro diario, sono stata violentata”. Ha scritto Pietro Magno nell’introduzione: “In questo “Zucchero filato” si parte da una condizione tutta rosea vista dagli occhi di un’adolescente che si sta avviando verso la giovinezza con le speranze, i desideri, i sogni da “principe azzurro”, dal primo bacio, per avvicinarsi sempre più all’atto finale, al dramma vero e proprio, alla catarsi, che ha un solo terribile nome: “violenza”. “Affrontare il tema della violenza sessuale non è stato facile”, afferma Valentina Pelliccia, “ma volevo mandare un messaggio di speranza e questo lo si può ottenere facendo affrontare al proprio personaggio eventi traumatici affinché poi possa dimostrare ai lettori tutta la sua forza per rinascere”. Le urla e la voce di Colette la commuovono, ne risulta il compatimento silenziosissimo in cui soprattutto si annida la pietà della Pelliccia. Luoghi, fatti, parole, violenza, stupro, Colette che vive da adolescente sia la prima festa di sera, sia  il primo bacio forzato, e infine lo stupro,  e tutto si risolve sulla pagina nella purezza di una grazia sottesa e vibrante, fra spiritualità e sensibilità, tutta fiamma del cuore. Appartiene Valentina Pelliccia a quella razza di scrittori che tendono a restituire il racconto e, nel racconto, a rintracciare fatti e sentimenti nell’ordine preciso, ma non tanto da essere una rigida e lineare costruzione.  Un racconto quello della violenza subita da Colette che si innesta nel racconto-storia della famiglia, e sin dalle prime battute si avverte la cura di una chiara precisione dei fatti, anche se l’intelligenza e l’impegno della scrittrice non possono far a meno dello spostamento e inversione di tempo, nel tessuto e nell’ordine degli avvenimenti. Lo legga e rilegga il romanzo il lettore, come lo abbiamo fatto noi, e potrà concludere che la migliore riuscita del lungo racconto sta proprio in un elemento che s’è già messo in rilievo, la potenza del narrare e l’acquisto di uno stile narrativo che dovrebbe fare scuola.

Carlo Franza                                                                                   

 

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