Narrazioni, ovvero le nuove tendenze, le espressioni e i linguaggi dell’arte contemporanea. Una mostra storica al Liceo di Brera di Milano ne esempla figure e protagonisti dell’oggi.
Lo Spazio Hajech dello Storico Liceo Artistico Statale di Brera a Milano vivacizza e incornicia la sua mostra storica -a cadenza annuale- all’interno di uno sguardo a tutto campo sulla contemporaneità e sulle narrazioni che gli artisti del presente sviluppano, tenendo conto sia del legame naturale con la didattica dell’insegnamento che la conoscenza e la messa a fuoco di tendenze, espressioni e figure che caratterizzano la realtà contemporanea, l’arte dell’oggi e degli ultimi decenni.
E’ la volta di “Narrazioni. Tendenze, espressioni e linguaggi dell’arte oggi”, una mostra che campiona artisti che hanno caratterizzato il loro lavoro all’interno di movimenti, tecniche e metodologie significative come l’archeologia del postmodern di Gianni Cella, le strutture primarie e le tendenze parafilosofiche di Nicola Salvatore, la narrazione concettuale di Bruno Mangiaterra, il post-informale di Pepe Morales, il nuovo fantastico di Carlo Cecchi, l’epigrammatica minimal art di Marisa Zattini, l’arte estroflessa di Goca Moreno, la poesia visuale e il nomadismo di Gaetano Grillo, la clonart e la cracker’art di Giuliano Grittini, il new e l’estremo pop di Stefano Pizzi, l’astrazione lirica e le geometrie di Albano Morandi. E’ un nuovo atlante della geografia e dell’estetica dell’arte contemporanea, sicuramente non totale, ma abbastanza ampio per declinare poetiche multidirezionali e protagonisti dell’oggi, tendenze ed espressioni forti capaci porgere i risultati di una fervorosa ricerca europea e internazionale. E tutto ciò mira a offrire occasioni artistiche e culturali ad ampio raggio non solo ad alunni e professori dell’istituzione del Liceo Statale di Brera in cui vive questa mostra dichiaratamente storica, ma lo è anche per la città di Milano in cui ormai si concentrano le fibrillazioni della nuova creatività che apre a decenni di post-produzione. Ecco, dunque, le nuove tendenze, espressioni e linguaggi dell’arte contemporanea.
Con l’avvento della modernità, il mondo occidentale è stato percorso da diverse trasformazioni e avvenimenti che hanno avuto delle importanti conseguenze anche in campo socio-culturale. Per quanto riguarda quello artistico, a partire dalle prime avanguardie storiche, il linguaggio dell’arte ha subito una forte scossa e alcune regole della tradizione classica sono state modificate e altre completamente eliminate. A partire dal secondo dopoguerra il tentativo da parte degli artisti è cambiato nuovamente ed è finalizzato a riallacciare i rapporti con l’osservatore rendendolo partecipe della riuscita dell’opera stessa. Alla categoria del bello viene così sostituita quella di interessante, concetto che aggiunge al precedente una componente intellettuale: un’opera non viene più percepita per la sua bellezza, ma per la sua capacità di stimolare sia i sensi sia il pensiero. Ogni opera deriva da uno scenario che l’artista proietta sulla cultura, considerata a sua volta come cornice narrativa che produce nuovi possibili scenari in un movimento senza fine. E’ così che l’opera contemportanea non è più il punto finale del “processo creativo” ma un sito di navigazione, un portale, un generatore di attività. Riscrivere la modernità è il compito storico di questo inizio del XXI secolo, non ripartire da zero, né ritrovarsi spaesati dinanzi all’archivio della storia, ma inventare e selezionare, scaricare dal computer per utilizzare i dati. Davanti poi a un’economia fantasma -certo arma del potere tecno-mercantile- gli artisti spesso riattivano forme abitandole, piratando proprietà private e copyright, marche e loro prodotti, firme d’autore e forme museali. La fondazione di un discorso modernista parte proprio dagli scritti teorici di Clement Greemberg secondo il quale la storia dell’arte è una narrativa lineare, teologica, una logica all’interno della quale ogni opera del passato si definisce grazie alle relazioni con quelle che la precedono. Per Greember la storia dell’arte moderna e contemporanea è una progressiva purificazione della pittura e della scultura, questa storia deve avere un senso e questo senso dev’essere organizzato in una narrativa lineare.
La modernità si è aperta con una serie di teorie destabilizzanti che hanno contribuito a corrodere nel tempo le nostre convinzioni e le nostre certezze. Tutto ciò ha avuto delle conseguenze anche nella storia dell’arte che è diventata sempre meno certa dei suoi momenti fondamentali. È comprensibile quindi, come osserva Angela Vettese (Si fa tutto, Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza 2010) che “molti artisti abbiano espresso la tentazione di ridurre l’opera d’arte a un quasi-zero: nel 1918 Kazimir Malevic eseguì il primo monocromo completamente bianco della storia dell’arte, un’icona che si svuota di ogni significato devozionale e si fa omaggio del pensiero; nel 1952 Robert Rauschemberg ha realizzato monocromi bianchi che concepiva come vuoti, proprio mentre John Cage elaborava, come vedremo, una musica senza suoni. Nel 1958 Yves Klein ha esposto il nulla; allo stesso tempo Piero Manzoni ha inventato monocromi senza colore; nel 1968 Daniel Buren espose come sua opera la fine delle attività della Galleria Apollinaire di Milano; nel 1973 Michael Asher si accontentò di sabbiare i muri della Galleria Toselli, sempre a Milano, come a sottolinearne il vuoto. Bas Jan Ader, nel 1975, decise di fabbricarsi una barchetta e sparire, del tutto premeditatamente, nel nulla dell’oceano. Eppure, in tutti questi e in altri casi simili, siamo di fronte a tentativi di reazione”. L’opera oggi sèguita a esistere non più come oggetto, ma come azione; non più eterna, ma precaria; non più fatta di una sola materia, ma con diversi e variegati materiali; non più realizzata attraverso le tecniche tradizionali, ma con maniere nuove o miste. Il crollo delle verità con cui si è aperto il Novecento si è tradotto nella dissoluzione delle norme anche nel campo dell’arte e ha prodotto una svolta nel e del suo linguaggio. A partire da questo momento l’arte viene realizzata con qualsiasi materiale e non appartiene più soltanto alla pittura o alla scultura: a queste tecniche tradizionali si sono affiancate nuove grammatiche visive cui non si è ancora abituati: l’arte comincia a farsi con tutto. Il contemporaneo, traendo spunto da un’idea del semiologo Jean-Marie Floch, viene definito un bricolage, “un dispositivo aperto, capace nella storia dell’arte di dilatarsi fino a includere non solo l’assemblage ma anche l’arte ambientale, l’arte di comportamento, l’arte centrata, appunto, sulla partecipazione dello spettatore”. Il bricolage mette insieme cose diverse: così come la vita è fatta di pezzi messi assieme, allo stesso modo l’arte si compone di pezzi. Il bricolage ha una natura fragile e poco votata al permanere, è un veicolo elastico e sempre mutevole. L’idea di realizzare un’arte indipendente, autonoma e autoreferenziale, perfetta sul piano logico e distante dalla realtà, è caratteristica di pochi autori, e anche nelle opere di questi torna l’uso del bricolage. Il bricolage, dice Rosalind Krauss, ritorna con la sua capacità di introdurre “nel frutto il verme della realtà – la realtà considerata illimitata e arbitraria, che costringe necessariamente ogni rappresentazione a non essere altro che una collezione di frammenti”. E il filosofo francese Jacques Rancière ha scritto a proposito della pura dedizione all’arte e della ricaduta politica di essa che non ha senso oggi puntare su nessuna contrapposizione di tali concetti perchè “il proprio dell’arte consiste nel ritagliare in maniera nuova lo spazio materiale e simbolico. E’ in questo senso che l’arte fa politica”.
Gli artisti del Novecento, hanno per lo più peccato di vanagloria, pensando d’essere maggiormente evoluti rispetto ad altri secoli per essersi allontanati dalla materia, dal dato artigianale, e pensando per lo più di essere intellettuali tout court. E dunque, tutta una serie di movimenti, dal futurismo allo spazialismo, dal concettuale alla land art, dalla poesia visiva e visuale al hanno tenuto in conto lo spauracchio duchampiano del “bète comme un peintre” che sta “per stupido come un pittore”. Il mondo è saturo di oggetti, di opere, diceva Douglas Huebleer già negli anni Sessanta. Se la proliferazione caotica della produzione portò gli artisti concettuali alla dematerializzazione dell’opera, nel caso degli artisti della postproduzione li spinge a mixare e combinare i prodotti. Partiamo dal titolo della nostra mostra “Narrazioni”. Le opere di questi artisti come di tanti altri ancora, si intrecciano con la loro vita e la loro visione del vivere, dimostrando la capacità di far convivere influenze e generi diversi. Ogni artista dimostra un’attitudine al racconto, il quale più che illustrazione o descrizione è allusività a implicazioni intellettuali non mai disgiunte da un pensiero poetico. Sono artisti della postproduzione, inventano nuovi usi per le loro opere, operano un editing delle narrative storiche e ideologiche, inserendo gli elementi che le compongono in scenari alternativi. Così l’opera contemporanea non è più il punto finale del “processo creativo”, non quindi un prodotto finito da contemplare, ma un sito di navigazione, un portale da esplorare, un generatore di attività da manipolare, in quanto ad iniziare dalla produzione, si naviga in un network di segni, dove ogni artista inserisce a sua volta forme su narrazioni esistenti. Ed allora con questa nuova forma culturale, o meglio con questa cultura d’attività, l’opera d’arte è la terminazione di una rete di elementi interconnesi, come narrativa che si allarga a reinterpretare le narrative che l’hanno preceduta. E’ pur vero che ogni mostra racchiude un’altra mostra, ogni opera è congeniale a scenari diversi in quanto momento di una catena di progetti. Ad esemplare queste narrazioni abbiamo scelto una serie di nomi che raccontano questi scenari, tutti lavorano per rappresentare il luogo della negoziazione tra realtà e finzione, tra narrativa e critica. Gli artisti sono Carlo Cecchi, Gianni Cella, Gaetano Grillo, Giuliano Grittini, Bruno Mangiaterra, Albano Morandi, Pepe Morales, Goca Moreno, Stefano Pizzi, Nicola Salvatore e Marisa Zattini.
Carlo Cecchi ricostruisce il racconto della sua vita a un livello inconscio materializzando l’atto della memoria in termini estetici; Gianni Cella movimenta narrative fittizie reintroducendo l’imprevedibilità, l’incertezza, lo stupore, il gioco di questa archeologia del modernismo; Gaetano Grillo fa vivere il lessico di una pratica che combina tavole di documentazione, linguaggi e alfabeti, cartografie, codici postproduttori, che obbediscono a un programma ciclico, sapiente, controllato e immutabile; Giuliano Grittini smonta e rimonta le componenti iconiche del nostro universo visivo quotidiano sulle tracce dell’operato degli affichistes che fanno rivivere la cartografia mobile imbevuta di scorie; Bruno Mangiaterra interroga il reale e lo filtra attraverso la grande metafora organica, la costruzione di uno scenario, la frontalità di una narrativa concettuale; Albano Morandi espone le reliquie della natura ricondotte a un fenomeno astratto portandosi talvolta verso geometrie cariche di intima necessità; Pepe Morales lascia vivere simulacri di oggetti nomadici, forme e colori che enfatizzano il nostro universo mentale; Goca Moreno con la sua arte tende a dare forma e peso ai processi più invisibili portandosi a quella semplificazione secca e riduttiva con cui lo connota la modernità; Stefano Pizzi mostra ampiamente il riciclaggio di forme e immagini che forniscono le fondamenta di un’etica pop; Nicola Salvatore circonda le forme che insidiano la nostra percezione capovolgendole radicalmente sicchè diventano statuto accessorio e scenografico; Marisa Zattini rimaterializza il mondo e la tradizione letteraria e artistica dell’umanità, attraverso un’estetica relazionale, portandosi ad abitare stili e forme minimaliste, dando senso a questi frammenti e restituendo ad essi spazio fisico e storico.
Oggi il visitatore di una mostra di arte contemporanea spesso si sente come disarmato perché avverte un linguaggio troppo astratto e, pur subendo una certa fascinazione, non si ritiene in possesso delle lenti giuste per leggere le opere esposte. Si è verificato un passaggio con l’avvento dell’arte contemporanea: un’opera non si apprezza più per la bellezza che la caratterizza, ma per il messaggio che esprime e per capirlo occorre prima conoscere il vocabolario usato dall’artista. Chi apprezza l’arte contemporanea cerca di guardarla in toto e dentro e quindi prova a smontarla. L’arte contemporanea non sempre è un’arte che parla di se stessa, ma si tratta di un nuovo modo di trovare ed esprimere relazioni con i problemi che caratterizzano l’esistere dell’uomo. Perché l’arte è un’attività che consiste nel produrre rapporti con il mondo e materializzare, attraverso più forme, le sue relazioni con lo spazio e il tempo. Agli artisti, dunque, procedere con narrazioni.
Carlo Franza