Sono stato da poco a visitare presso la Galleria Bianconi di Milano, che ha inaugurato  la stagione espositiva 2020 – 2021,  una mostra sensibilmente aperta alla realtà cittadina del nostro tempo,  realtà che incide e coincide  sia con Milano, grande città europea, sia con altre città come ad esempio Parigi. E’ certo che il fotografo deve viaggiare, girovagare, fare un pò il cronista di immagini che possano descrivere anche la storia del presente, fermare in un’immagine  semplici cittadini, anche toccati da una vita difficile, di catturare, inquadrare e portare in primo piano sguardi e volti. Mi sono trovato a leggere qui in questa galleria milanese che osservo e seguo fin dal 2004,   una  mostra di fotografia, e per di più una mostra antologica, aperta fino al 19 dicembre 2020,  dal titolo “Citizens (1988 – 2006 )”, di   una fotografa italiana, certa  Paola Di Bello (Napoli 1961), figlia di Bruno Di Bello artista di chiara fama  che ho avuto modo di conoscere e frequentare, divenendone amico.  Leggo subito, da storico,  da addetto ai lavori,  che tutto  appare esposto per capitoli di lavoro, spesso volte anche frammentato, con  singole immagini fotografiche, o anche sequenze di esse,  o  installazioni vere e proprie che  toccano temi forti, sociali e filosofici – forse non troppo approfonditi e mirati- ,   quali sono  i cittadini, la comunità, l’esistenza, la vita e  il mondo, il tempo e la storia.  Osservando l’intero corpus della mostra della Di Bello mi sono balzati alla memoria  i lavori di Josef Koudelka, Don McCullin, Stephan Vanfleteren e poi James Nachtwey, rimanendovi  quest’ultimo inevitabilmente colpito  dal suo Inferno, ovvero la terrificante testimonianza della condizione umana. La Paola Di Bello ha pensato  di voler procedere lungo una direttrice che a suo dire è concettuale -ma il concettuale è altra cosa-  e di richiamo alle scienze sociali.  No, non può essere, perché le scienze sociali e la sociologia  richiedono una sguardo scientifico che qui manca. Quel che vedo sono solo fotografie e installazioni  mosse da uno “spiccato sperimentalismo”, marchiatura che le si addice da tempo, per via di un racconto quale mi pare tutto il procedere della fotografa milanese, scatti che rivelano certo un’alterità  dell’opera rispetto a come si rappresenta il mondo civile. E in questo senso si leggono i grandi formati dove gli homeless di Paola Di Bello  non sono i  soggetti di Lee Jeffries, il fotografo quarantunenne di Manchester,  che ha  incontrato camminando per le strade dell‘Europa e degli Stati Uniti.  I “barboni” della Di Bello costretti in quella forma cartellonistica  che non giova certo alla visione  perché esasperano il dramma, si ritrovano  costretti al luogo della solitudine,  in quelle  strade che non hanno perso i loro abituali occupanti,  i vaganti senza  fissa dimora  che i  marciapiedi da sempre accolgono. In queste immagini  mi pare ci sia  interesse nel mercificare i soggetti e, non c’è nulla di più detestabile della fotografia che rapisce, attratta dall’esotico, soprattutto in questo periodo di bulimia d’informazioni sulle conseguenze date dal Covid-19.

Hermann Hesse ne “Il Lupo della steppa” scrive: “Tutti questi uomini, qualunque siano le loro gesta e le loro opere, non hanno veramente alcuna vita, vale a dire la loro vita non è un’esistenza, non ha una forma, essi non sono eroi o artisti o pensatori come altri possono essere giudici, medici, calzolai o maestri, ma la loro vita è un moto eterno, una mareggiata penosa, è disgraziatamente e non dolorosamente straziata, paurosa o insensata, quando non si voglia trovarne il significato proprio in quei rari avvenimenti e fatti, pensieri e opere che balzano luminosi sopra il caos di una vita simile”. Questa serie degli homeless, ma anche la sequenza di “ritratti formato tessera delle sue studentesse”, vogliono essere e così appaiono, un atto di “restituzione sperimentale” che si accompagna per mano alla responsabilità prima della fotografia,  la memoria.

Il tema generale  della mostra  vorrebbe centrare la rappresentazione  dei “cittadini”, del loro vivere, di luoghi, dei luoghi da essi visti come casa, uffici   e relazioni, o addirittura delle periferie  e delle città articolate come “Sao Paulo” o “Mirafiori” del 2002; o  come la grande installazione pannellata di tableux d’affichages  di una carta geografica attraverso una  sequenza di quartieri  parigini   disposti a mò di scala (vedi “disparition” del 1995) e ancora “Bildung” del  1995-2003 e  “Framing the Community” del 2006-14,  che ritraggono usi e costumi  di  distinti gruppi sociali.  La mostra  mira  a incorniciare  il tema della “comunità”, o meglio, come dice il titolo stesso, i “cittadini” cioè  una comunità avanzata definita da reciproci rapporti di diritti e doveri all’interno di una società organizzata. In sostanza, questa  è fotografia di  “restituzione sperimentale” per via dell’ibridazione dell’immagine che non tiene conto  anche della preziosa lezione di Marco Mancuso.  Infine, ai lettori di queste immagini della Di Bello  e alla stessa fotografa voglio donare  dieci frasi belle sulla fotografia di illustri intellettuali del settore. Eccole:

 

La fotografia non mostra la realtà, ma l’idea che se ne ha.
(Neil Leifer)

Sono un voyeur e chi come fotografo non lo ammette è un cretino.
(Helmut Newton)

La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare.
(Lewis Hine)

Una foto non si scatta, si crea.
(Ansel Adams)

La fotografia è l’arte di mostrare di quanti istanti effimeri la vita sia fatta.
(Marcel Proust)

Fare una fotografia vuol dire allineare la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere.
(Henri Cartier-Bresson)

Fotografare è assaporare intensamente la vita, ogni centesimo di secondo.
(Marc Riboud)

Certo, ci saranno sempre quelli che guardano solo alla tecnica, che chiedono “come”, mentre altri di natura più curiosa chiederanno “perché”. Personalmente, ho sempre preferito l’ispirazione all’informazione.
(Man Ray)

Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino.
(Robert Capa)

Non scattare quello che appare. Scatta quello che ti fa sentire.
(David Alan Harvey)

Ecco non aggiungo altro, la Di Bello lavorerà e ci consegnerà altri capitoli e altre mostre, vedremo se la “rivoluzione”fotografica gli porterà maggior fortuna. Glielo auguriamo fortemente.

Carlo Franza

 

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