Bello nel suo insieme, e interrogativo,  il titolo del romanzo di  Nicola Lagioia, “La città dei vivi”(Einaudi),  e ancor di più oggi  nel quadro della pandemia, tempo in cui ancor più  lo Stato appare lontano e i cittadini soli e abbandonati.  La città dei vivi  è un libro che si divora, nonostante la mole, in pochissimo tempo. Complice la scrittura appassionata, calda e avvolgente di Lagioia e la storia,  terribile e terrificante e tristemente coinvolgente. “Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. Preghiamo di non incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?” Le parole di Nicola Lagioia ci portano dentro il caso di cronaca piú efferato degli ultimi anni. Questo romanzo è un libro per gli appassionati di cronaca nera.  Un viaggio per le strade di Roma, per le strade buie  della città eterna, un’indagine sulla natura umana, sulla responsabilità e la colpa, sull’istinto di sopraffazione e il libero arbitrio. Su chi siamo, o chi potevamo diventare. Mi rifaccio a talune uscite  dei colleghi recensori  su alcuni quotidiani italiani. Eccoli: “La città dei vivi” insomma è finzione al suo meglio, un particolare tipo di finzione che soffia vita nei documenti del reale(Domenico Starnone, la Lettura – Corriere della Sera); “Nicola Lagioia ci regala un magnifico paesaggio di Roma in nero […]: qui tutto è umano – questo mondo in cui i genitori non conoscono i figli, in cui un fresco amore romantico può basarsi sulla menzogna, in cui le ossessioni torbide funzionano con esatta geometria, questo mondo è il nostro mondo» ( Walter Siti, Domani)”; “È un conto che Lagioia decide di saldare innanzitutto con se stesso, con “il segreto” che si porta dietro […] Che trasforma quell’omicidio in una dolorosa seduta analitica non solo per lui, ma per ciascuno di noi. Padre, fratello o figlio che sia”( Carlo Bonini, la Repubblica); “Prima di iniziare a leggere, mi sono chiesta come avrebbe fatto Lagioia a raccontare una storia così atroce, ambigua, contorta senza soccombere sotto il peso della responsabilità […] Era difficilissimo. E lui ci è riuscito” (Antonella Lattanzi, tuttolibri – La Stampa).

Ecco di cosa si parla del libro e del fattaccio narrato. Nel marzo 2016, in un anonimo appartamento della periferia romana, due ragazzi di buona famiglia di nome Manuel Foffo e Marco Prato torturano  e seviziano  per ore un ragazzo piú giovane, Luca Varani, portandolo a una morte lenta e terribile. È un gesto inspiegabile, inimmaginabile anche per loro pochi giorni prima. La notizia attira  immediatamente l’attenzione, coinvolgendo e sconvolgendo nell’animo  l’opinione pubblica. È la natura del delitto a sollevare le domande piú inquietanti. Perché tutto ciò? Violenza gratuita? Gli assassini sono dei depravati,  dei cocainomani,  dei disperati? Erano davvero consapevoli di ciò che stavano facendo? Taluni  inizia a descrivere l’omicidio come un caso di possessione. Sta di fatto  che questo gesto abnorme, insensato, mette  i colpevoli  all’attenzione dell’intero mondo. Nicola Lagioia segue questa storia sin dall’inizio: intervista i protagonisti della vicenda, raccoglie documenti e testimonianze, incontra i genitori di Luca Varani, intrattiene un carteggio con uno dei due colpevoli. Quasi da detective  lo scrittore si mette sulle tracce del delitto calandosi nella notte di Roma,  quella Roma caput mundi, oggi megalopoli,  una città invivibile eppure traboccante di vita, presa d’assalto da topi e animali selvatici, stravolta da corruzione e  droghe, ma al tempo stesso capace di far sentire libero chi ci vive  stabilmente o anche solo di passaggio, come nessun altro posto al mondo. Una città che in quel momento non ha un sindaco, ma ben due papi. Da questa indagine emerge un tempo fatto di aspettative tradite, confusione sessuale, difficoltà nel diventare adulti, disuguaglianze, vuoti di identità e smarrimento. Procedendo per cerchi concentrici, Nicola Lagioia spalanca le porte delle case, interroga i padri e i figli, cercando il punto di rottura a partire dal quale tutto può succedere. Manuel e Marco (questo il nome di battesimo dei due assassini)  rovinano la propria vita senza alcun motivo. Ed  è qui che entra in gioco la scrittura e il racconto  di Lagioia. Quando Manuel racconta al padre di aver ucciso una persona confessa anche di non sapere chi sia. Manuel non conosce nemmeno il nome di Luca ed è questo l’abisso in cui ci fa precipitare La città dei vivi. La storia horror comincia con il sangue che cola in una biglietteria del Colosseo. Un inizio da film horror, ma qui  è tutto vero. Confessa Manuel: “   Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai. I tifosi del Feyenoord entravano ubriachi nella fontana di Trevi e prendevano a bottigliate  la Barcaccia del Bernini, a Villa Borghese i vandali decapitavano le statue dei poeti, grandi buste di immondizia volavano da un palazzo all’altro, tutti pisciavano ovunque, un’indulgenza plenaria era nell’aria, e io stesso, che in un’altra città mi sarei fatto scoppiare la vescica, mi ero trovato più di una volta a inumidire le Mura Serviane”. E’ la città dei vivi  che adesso si apre, su questo scenario scipionesco  che è Roma, il delitto è già stato commesso,  Manuel  ha confessato  il giorno del funerale dello zio. Da qui  Lagioia ricostruisce personalità e abitudini dei giovani assassini attraverso le voci di familiari, amici, e dagli interrogatori. E  mentre  Manuel confessa, in un hotel poco distante – con  la voce di Dalida  che  si espande dalla radio  in una stanza in disordine- :  Marco Prato  tenta il suicidio. Due ragazzi così diversi e  non si sa se forse  amici,  certo decisi ad annientare una vita.  Tre le famiglie distrutte per sempre per la follia di una notte.  In questo omicidio la vittima quasi scompare. Tutta l’attenzione è concentrata sugli assassini. La volontà di capire cosa li abbia spinti a uccidere, ma soprattutto a torturare per ore l’amico che avevano invitato a casa è un mistero, tanto da far scivolare in secondo piano la figura di Luca Varani.  Credo che questa sia l’ingiustizia più grande di tutta questa storia.

Vivaci i particolari morbosi sulla vita di Marco, vita sregolata e sopra le righe, borderline,  Marco parlava di se stesso al femminile, vestiva da donna e aveva rapporti con Manuel che sembra più preoccupato di “passare per frocio” piuttosto che per pazzo assassino. Lagioia è soprattutto concentrato  sugli aguzzini,  anche se ci sono pagine dedicate alla ragazza di Luca, ai genitori, agli amici.  Persino la descrizione dell’appartamento di  Manuel  è raccapricciante e quello che aleggia intorno è inquietante e preoccupante;  tapparelle abbassate, disordine, odore di chiuso e di morte. Bottiglie rovesciate, piatti sporchi e sangue.  E’ il male che aggalla, e loro  avevano a che fare ogni giorno con esso. Lagioia scrive oltre quattrocento pagine che  si leggono – come ho fatto io-  a tambur battente e con il cuore in gola. Racconta una storia fatta di dolore, di male, parla soprattutto  di cosa accomuna  Manuel, Marco e Luca, e cosa li  divide profondamente. Su tutto il manto di Roma,  il cielo di Roma  che regge “la città dei vivi”,  una Roma ingovernabile e nonostante tutto bellissima nella sua degradazione. Purtroppo, dico purtroppo, questo è il nostro mondo.

Nicola Lagioia, scrittore italiano.  E’ nato a Bari nel 1973. Con minimum fax ha pubblicato Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001), e con Einaudi “Occidente per principianti” (Supercoralli 2004), “Riportando tutto a casa” (ultima edizione ET Scrittori 2017; Premio Viareggio-Rèpaci, Premio Vittorini, Premio Volponi), “La ferocia” (Supercoralli 2014, Super ET 2016; Premio Strega 2015) e “La città dei vivi” (Supercoralli 2020).

Carlo Franza

 

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