“Quegli ultimi rumori” di Philippe Jaccottet, un libro capolavoro della letteratura mondiale, pubblicato da Crocetti editore.
“Quegli ultimi rumori” di Philippe Jaccottet (pp. 112, Crocetti editore, 2021) è libro di altissima poesia. Crocetti lo ha da poco pubblicato a cura di Ida Merello e Albino Crovetto, edito in origine da Gallimard nel 2008 (Ce peu de bruits). Per lo più, è un taccuino che alterna letture e sogni, osservazioni (“Due aironi bianchi al di sopra del Lez nascosto dietro le canne”) e agnizioni. Conoscevamo, e bene, il Philippe Jaccottet e il suo pregnante io lirico elementare, povero e ricco insieme di “E, tuttavia” (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006), quasi ultraterreno e stellare. Già Starobinski lo aveva sottolineato nel memorabile saggio “Parlare con la voce della luce, presente in forma di postfazione in Il Barbagianni. L’ignorante (a cura di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992): “È forse questo l’aspetto più ammirevole dell’opera di Philippe Jaccottet: […] il soggetto cui essa rinvia è il più discreto che esista, desideroso unicamente di alleggerire la propria presenza, di renderla quasi invisibile”.
Ora, del libro in questione, leggiamone quella parte intima che dice “Quegli ultimi rumori/ che ancora raggiungono il cuore, cuore quasi di fantasma./ Quei pochi passi arrischiati ancora verso il mondo, che si direbbe/ allontanarsi, mentre è piuttosto il cuore che lo fa, suo malgrado./ Tuttavia, nessun lamento su questo, niente a impedire l’ascolto degli ultimi/ rumori; neppure una lacrima a offuscare la vista del cielo sempre più/ lontano./ Parole mal padroneggiate, mal collegate, parole ripetitive, per/ accompagnare ancora una volta il viaggiatore come un’ombra di ruscello/”; libro di verità e esiti sommi, un prezioso e sontuoso gioiello di scrittura di Philippe Jaccottet, uno degli ultimi grandi maestri della letteratura del Novecento da poco scomparso. La plaquette intitolata “Quegli ultimi rumori” è intrisa di annotazioni, prose poetiche, parabole brevi, omaggi a poeti e scrittori come Leopardi, Kafka e Handke; il poeta svizzero è attratto da una sorta di richiamo all’assoluto, pur essendo legato alla terra, alla casa, al giardino, al paesaggio, al suo territorio, e dunque un richiamo all’al di là senza lasciarsi avvolgere da una sorta di teologia transeunte. I suoi versi catturano il lettore in questo vivere purgatoriale, in questa scenica esistenza, in questo essere vicino alle cose del mondo. Ma il presente, il vivere, l’esistenza, il vissuto non trovano aderenze concrete, ma si volgono verso sfumature, colorazioni, tonalità, per via dell’io lirico che si tuffa di volta in volta. Jaccottet pare aderire al sistema poetico di Keats: “…perciò, teneri flauti, / continuate a suonare, non al sensuale orecchio, / ma suonate per lo spirito, suonate arie senza suono”. Il poeta posa le immagini sul fuoco della poesia, pur osservandone tutte le sfaccettature, e via via le storie che le movimentano; pare quasi un geografo che disegna e consulta mappe, le mappature di un mondo vicino e lontano: “Fogliame che si calma prima della notte creando spazio –quando tutti gli uccelli nascosti nel grande alloro cominciano infine a tacere. Intanto il cielo è sbiancato, ha quasi perso colore, tranne vicino alla terra dove è ancora un po’ rosa; e non è più cielo, è l’assenza di ogni ostacolo, di ogni peso, tutt’al più soltanto aria e nemmeno più turbata dalle ultime nubi in movimento– mentre la montagna lontana diventa a sua volta nube, ma sospesa, immobile. E che cos’è la stella che scintilla improvvisa al tramonto? Un gioiello d’aria per l’orecchio, il collo, un polso nascosto? Un segno che ci viene incontro dal fondo cupo del tempo? Una brace sopravvissuta a un fuoco immemoriale? Non copriamola con una nebbia di parole, fossero anche le più chiare che vengono in mente! Cancelliamole piuttosto, e senza aspettare. Che rimanga soltanto un’ape mentre guida lo sciame di sorelle”. Dalle barricate di Couperin ai frammenti di Kafka, il brusio del mondo come preferisco chiamare la realtà e il suo essere corre lungo un rettilineo pur con qualche picco verso l’alto; è un racconto piano, misurato, essenziale, che lascia annotare come su una lavagna gli alti e bassi della vita, le utopie sopite, i sogni addormentati, le presenze e le assenze umane; quegli ultimi rumori che non smettono di propagarsi, quelle ultime fioriture di primavera come i peschi e i mandorli in fiore, quel nido che riaccoglie le rondini tornate da un lungo viaggio, e mille altre cose tra natura, vita umana e animale. Tutto si volge fra accensioni, illuminazioni, accecamenti, respiri, arie e tremolii. “L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro, diventano trasparenti, di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa. Così l’anima è davvero trasformata in uccello”; in queste righe di Philippe Jaccottet scritte nel 1954 si dipana una dichiarazione di poetica. E’ uno svelamento, perché dall’io e da una sorta di riflessione interiore, l’uomo ritrova poi una comunione con il mondo, una sorta di ritorno alle origini. Il poeta spazia nei mondi, oltre tutti i confini, si àncora alla realtà che vede, osserva e sente, catturando anche sogni, ricordi, avventure, letture, “quegli ultimi rumori” che lo portano oltre, verso un dove spesse volte inaccessibile ai più. Con versi carichi di una espressività esemplare, Philippe Jaccottet sa cogliere “l’istinto che permette alle cose di lasciarsi trasportare dolcemente nell’aria, verso l’alto” e, poeta indiscusso, lascia percepire in questi versi e in questa miracolosa scrittura, non solo il lampeggio del mistero interiore, ma ne svela l’addio al mondo che di lì a poco lo attenderà.
Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, in Svizzera ed è morto in Francia, a Grignan, dove viveva, il 24 febbraio 2021. Dopo gli studi di filologia greca e tedesca all’Università di Losanna, dal 1946 al 1952 ha vissuto a Parigi, dove ha collaborato con l’editore Henry-Louis Mermod. Nel 1953, nel pieno della sua attività poetica ed editoriale, ha lasciato la capitale francese e si è stabilito con la moglie a Grignan, un borgo della Drôme, nel sud della Francia, immergendosi nella natura e dedicandosi alla scrittura. L’opera di Jaccottet è vastissima e comprende raccolte poetiche, volumi in prosa, saggi, diari e magnifiche traduzioni dal greco (Odissea), dal tedesco (Thomas Mann, Rainer Maria Rilke, Friedrich Hölderlin, Robert Musil), dall’italiano (tra gli altri, Giacomo Leopardi, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Giorgio Caproni e diversi narratori) e dallo spagnolo (Luis de Góngora).
Carlo Franza