La galleria A arte Invernizzi ha inaugurato la mostra L’occhio critico, che si inserisce nella serie iniziata con L’occhio musicale (2014) e proseguita con

L’Occhio Cinematico (2016) e L’Occhio Filosofico (2018). La galleria di punta nel panorama italiano e internazionale presenta i suoi artisti, una squadra di aniconici, analitici e minimalisti, figure di chiara fama che inseguono da anni una sofisticata  indagine sulle forme e sulla visione. Ecco perché “l’occhio critico”.   In questa occasione si rivolge lo sguardo non solo alle opere ma anche a chi vuole mostrarle. L’occhio critico è, ovviamente, quello del critico: quello di chi intende mostrare agli altri le opere, che ne indica la loro presenza e ne approfondisce la lettura. Ma occhio critico deve poter essere, anche, l’occhio di chi osserva le opere d’arte, scardinando l’ovvio e l’acquisito che c’è nel guardare. Il titolo della mostra rimanda al bel titolo “Occhio critico” del libro del collega  Guido Ballo che uscì nel 1966, un testo capitale che ancora oggi parla  e fa configurare l’arte  dentro la ragione poetica; non dunque  questione di forma o materia, di vero o fantastico, ma  di “liricità”, un mondo interiore emotivo e vitale e com’egli disse  “una totalità senza confini”, che vive fra stupore e sogno, tra silenzio e assoluto, da cui muove la vita.  

Gli artisti esposti sono rappresentanti e protagonisti di diverse generazioni dell’arte contemporanea italiana e internazionale a partire dagli anni Cinquanta. La mostra permette di individuare un fil rouge che attraversa il “fare” di ciascuno di essi pur nella loro individualità irriducibile. Il percorso espositivo si articola su entrambi i piani della galleria. Nella prima sala del piano superiore sono presenti opere di Carlo Ciussi, Gianni Colombo, Philippe Decrauzat, Bruno Querci, Nelio Sonego e Elisabeth Vary; in modi assai diversi fra loro – tramite la superficie pittorica, per una costruzione aggettante, o scultorea in senso lato – si appropriano sia dello spazio fisico che mentale. La sala espositiva successiva, in continuità con

la precedente, mette in dialogo opere di Gianni Asdrubali, Arcangelo Sassolino e David Tremlett. Seguono nelle sale adiacenti, con opere più intime, Rodolfo Aricò, Francesco Candeloro, Lesley Foxcroft, Salvatore Scarpitta, Günter Umberg e Grazia Varisco, dando luogo a un passaggio riflessivo e invitando a un avvicinamento attento. L’opera di Riccardo De Marchi esposta sulla parete all’ingresso fa da cerniera fra i momenti della visita. Al piano inferiore sono presenti lavori caratterizzati da spinte spaziali, prevalentemente verticali, in Dadamaino, François Morellet, Mario Nigro, Niele Toroni e Michel Verjux, o longitudinali, come in Alan Charlton. L’opera di Pino Pinelli sintetizza in un certo modo le due direzioni attraverso una disseminazione ellittica.

La varietà delle opere, caratterizzata da un forte restringimento dello spettro cromatico, è molto ampia sia sul piano formale sia per i diversi media utilizzati; l’assenza dei colori favorisce una visione prolungata e ripetuta. La mostra vorrebbe rendere possibile un allenamento dell’occhio allo stupore ed essere un invito a osservare le opere nella

loro unicità. Gli accostamenti presentati creano una continuità fra i diversi lavori, ma allo stesso tempo inducono a mantenere le distanze sia fra le singole opere, per evitare di uniformarle, sia fra esse e lo spettatore, per mantenere lo spazio della sorpresa.

Al termine del percorso lo spettatore è chiamato a interrogare lo sguardo con cui ha attraversato la mostra: un cammino fisico che, simultaneamente, è un itinerario mentale che conduce all’approfondimento del guardare medesimo, a scoprire l’occhio critico in sé stessi.

Carlo Franza

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