Roma, maggio 2022. Maestro del bianco e nero, della fotografia di reportage e di indagine sociale, in quasi settant’anni di carriera Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930) ha raccontato con le sue immagini l’Italia dal dopoguerra a oggi, costruendo un patrimonio visivo unico caratterizzato da una grande coerenza nelle scelte linguistiche e da un approccio “artigianale” alla pratica fotografica. La sua personale “Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere”, al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo fino  al 18 settembre 2022, raccoglie oltre 200 fotografie tra immagini celebri, altre poco note o completamente inedite.

Un racconto straordinario dedicato all’Italia, che riprende il titolo del celebre libro del 1970 curato da Cesare Colombo, L’occhio come mestiere, un’antologia di immagini del maestro che testimoniava l’importanza del suo sguardo, del suo metodo e della sua capacità fuori dal comune di narrare il suo tempo. La mostra, a cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro, è prodotta dal MAXXI in collaborazione con Contrasto. Main Partner Enel, socio fondatore del museo e compagno di viaggio in tutte le iniziative importanti. Commenta Giovanna Melandri, Presidente Fondazione MAXXI: «Sono particolarmente felice di questa mostra dedicata a Gianni Berengo Gardin. Il maestro ha scelto di mostrare per la prima volta qui al MAXXI alcune fotografie inedite, e lo ringrazio moltissimo anche per questo. Il suo sguardo ha attraversato l’Italia e l’ha raccontata nelle sue dinamiche sociali, nel mondo del lavoro, della cultura. Le sue immagini “vere” sono meravigliose, con l’uso del bianco e nero, con il gioco delle ombre. Raccontano l’uomo nella sua dimensione sociale, hanno un forte valore insieme poetico e politico e sono straordinariamente contemporanee».

Dice Margherita Guccione:la mostra che il MAXXI dedica a Gianni Berengo Gardin rilegge in una prospettiva nuova la sua lunghissima carriera, segnata da una forte e coerente idea di fotografia-documento, quella che lui chiama “vera fotografia”. Una modalità che rifugge dalla tentazione della manipolazione analogica o digitale, per riaffermare una visione documentaria, ma mai neutrale e sempre partecipe della realtà. L’idea fondante del racconto è di ripercorrere settant’anni di fotografia in modo prevalentemente geografico con alcuni nuclei tematici, un viaggio che parte da Venezia, un luogo sempre presente nel suo modo di guardare, e che attraversa il paesaggio fisico, sociale e culturale del nostro tempo”.

Come scrive Alessandra Mauro nel libro L’occhio come mestiere che accompagna la mostra, pubblicato da Contrasto: «Essere fotografi per Gianni Berengo Gardin significa, foto dopo foto, riuscire a trovare per sé un ruolo di “osservatore partecipante”, come si dice in antropologia culturale, fatto di ascolto e attesa, come è sempre stato nella tradizione dei grandi autori di documentazione del Novecento. In fondo, erano loro ad affermare che bisogna imparare a raccontare le cose come sono, senza errori né confusioni; e se la documentazione è onesta, veritiera, limpida e verace, diventa – come diceva Dorothea Lange – un atto estremamente nobile, più di tutto un racconto di finzioni. Anche Gianni impara a immergersi nella realtà, a documentare i cambiamenti sociali, del costume, della politica. Questo è il suo mestiere; lui lo ha scelto con convinzione e lo esercita con una costanza ammirabile e con un metodo infallibile, perché sedimentato nel tempo e affinato in tante prove e tanti lavori”.

La mostra. Il percorso espositivo è introdotto sulle scale dall’intervento dell’artista Martina Vanda: grandi illustrazioni a parete in bianco e nero ispirate da alcune fotografie iconiche di Berengo Gardin. All’interno, un percorso fluido e non cronologico accompagna il visitatore in un viaggio nel mondo e nel modo di vedere del maestro, offrendo una riflessione sui caratteri peculiari della sua ricerca. Tra questi: la centralità dell’uomo e della sua collocazione nello spazio sociale; la natura concretamente ma anche poeticamente analogica della sua “vera fotografia” (formula con cui timbra le sue stampe autografe mai manipolate e che rimanda al lavoro del fotografo come “artigiano”); la potenza e la specificità del suo modo di costruire la sequenza narrativa, che non si limita a semplici descrizioni dello spazio ma costruisce naturalmente storie; l’adesione impegnata a una concezione della fotografia intesa come documento, eppure puntellata da dettagli spiazzanti e ironici. E, su tutto, la coerenza della sua visione. Punto di partenza di questo viaggio visivo è Venezia, città d’elezione per Berengo Gardin che, pur non essendovi nato, si sente veneziano e dice: «i nonni erano veneziani, i bisnonni veneziani, papà venezianissimo». Venezia è il luogo in cui si forma come fotografo, grazie all’incontro con circoli fotografici come La Gondola, ed è il luogo di un continuo ritorno, dalle prime straordinarie immagini degli anni Cinquanta in cui vediamo una città intima e quasi sussurrata, molto poetica, passando per la contestazione alla Biennale del 1968 fino al celebre progetto dedicato alle Grandi Navi del 2013.

 

Da Venezia alla Milano dell’industria, delle lotte operaie, degli intellettuali (in mostra, tra gli altri, i ritratti di Ettore Sotsass, Gio Ponti, Ugo Mulas, Dario Fo), per attraversare poi quasi tutte le regioni e le città italiane, dalla Sicilia alle risaie del vercellese, osservate nelle loro trasformazioni sociali, culturali e paesaggistiche dal secondo dopoguerra a oggi.

E poi i celebri reportage dai luoghi del lavoro realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto, Olivetti (con cui collabora per 15 anni), che lo aiutano a crearsi una coscienza sociale e, come dice nell’intervista a Margherita Guccione realizzata proprio per la mostra: «Posso definirmi comunista fuori dalle righe, non tanto perché ho letto i testi importanti del comunismo, ma


 

perché ho lavorato in fabbrica con gli operai, capivo i loro problemi». Quelli sugli ospedali psichiatrici pubblicati nel 1968 nel volume Morire di classe, realizzato insieme a Carla Cerati: immagini di denuncia e rispetto, straordinarie e terribili, che documentavano per la prima volta le condizioni all’interno degli ospedali psichiatrici in diversi istituti in tutta Italia. Curato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, il libro ha contribuito in modo determinante alla costituzione del movimento d’opinione che ha condotto nel 1978 all’approvazione della legge 180 per la chiusura dei manicomi. Le immagini in mostra raccontano poi i popoli e la cultura Rom, di cui Berengo Gardin ha fotografato con fiducia e curiosità i momenti intimi e quelli corali della loro vita, come le feste e le cerimonie; i tanti piccoli borghi rurali e le grandi città; i luoghi della vita quotidiana; L’Aquila colpita dal terremoto; i cantieri (tra cui anche quello del MAXXI, fotografato nel 2007); i molti incontri dell’autore con figure chiave della cultura contemporanea (Dino Buzzati, Peggy Guggenheim, Luigi Nono, Mario Soldati, solo per citarne alcuni).

Completano il percorso una parete dedicata allo studio di Milano, per Berengo Gardin luogo di riflessione e di elaborazione, che appare come una sorta di camera delle meraviglie in cui emergono anche aspetti privati e meno noti della sua personalità e un’altra dedicata ai libri, destinazione principale e prediletta del suo lavoro, una sorta di gigantesca libreria che ripercorre le oltre 250 pubblicazioni realizzate nel corso della sua lunga carriera, collaborando con autori quali Gabriele Basilico, Luciano D’Alessandro, Ferdinando Scianna, Renzo Piano e anche con Touring Club Italiano e con De Agostini. Fondamentale, inoltre, la collaborazione con il settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio, dove tra il 1954 e il 1965 pubblica oltre 260 fotografie e di cui scrive: «Nella mia vita ho incontrato molti importanti intellettuali italiani che sono diventati amici e hanno influenzato moltissimo la mia fotografia. Il più importante è stato Mario Pannunzio».

Attraverso la scansione di un QR code, è inoltre possibile visitare la mostra accompagnati dalla voce di Gianni Berengo Gardin che racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale, primo di una serie di podcast che il MAXXI dedica a fotografi, artisti e architetti presenti nella Collezione del Museo. La mostra è accompagnata dal libro L’occhio come mestiere (244 pagine, 45 euro) pubblicato da Contrasto e arricchito da un testo di Edoardo Albinati, dalla prefazione di Giovanna Melandri, da uno scritto di Alessandra Mauro e da una conversazione tra Margherita Guccione e Berengo Gardin.

Media partner è Rai Cultura che, venerdì 13 maggio, propone su Rai 5 una serata straordinaria dedicata al grande maestro. Si comincia alle 21.15 con una puntata speciale di Terza Pagina che racconta il dietro le quinte della mostra attraverso il racconto delle curatrici, del team di lavoro e un’intervista a Gianni Berengo Gardin. A seguire, alle 22.05, Art Night presenta il docufilm Il ragazzo con la Leica, regia di Daniele Cini, prodotto da Claudia Pampinella per Talpa Produzioni in collaborazione con Rai Cultura e con il sostegno del MiC Direzione Generale Cinema e Audiovisivo. Ripercorrendo l’autobiografia scritta con la figlia Susanna in occasione dei suoi 90 anni, il film traccia il ritratto del fotografo e dell’uomo e ripercorre 70 anni di storia italiana, anche attraverso testimonianze di amici tra cui Renzo Piano, Ferdinando Scianna e Roberto Koch. Lo stesso documentario sarà poi proiettato al MAXXI mercoledì 22 giugno alle 19.00. Durante l’evento verrà presentato il libro L’occhio come mestiere, in una conversazione tra Gianni Berengo Gardin e le curatrici della mostra.

 Carlo Franza

 

 

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