L’età dell’oro. I capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria e l’Arte Contemporanea.
La Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia ospita fino la 19 gennaio 2025 la mostra L’età dell’oro. I capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria incontrano l’Arte Contemporanea, curata da Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi, dopo l’anteprima in forma ridotta alla Ca’ d’Oro, durante la Biennale di Venezia.
Il percorso espositivo, composto da 50 opere, presenta alcuni dei capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria, realizzati da Duccio di Boninsegna, Gentile da Fabriano, Taddeo di Bartolo, Niccolò di Liberatore, Bernardino di Mariotto, il Maestro del Trittico del Farneto, Bartolomeo Caporali e altri, in dialogo con opere di grandi maestri dell’arte contemporanea quali Carla Accardi, Alberto Burri, Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Andy Warhol, in grado di creare un percorso assolutamente unico che, in nome dell’uso dell’oro, vede affiancati lavori che, per assonanze tecniche, estetiche e concettuali, propongono nuovi confronti, suggestioni e prospettive, spalancando inediti orizzonti di interpretazione.
Tra i dialoghi più coinvolgenti, quello fra il Reliquiario di Montalto, straordinaria oreficeria francese della fine del XIV secolo appartenuta in passato a Carlo V di Valois e Lionello d’Este e donata poi da Sisto V alla cittadina marchigiana d’origine, e l’Ex-voto che Yves Klein dedicò a Santa Rita da Cascia, regalato dall’artista al convento delle Agostiniane della cittadina umbra, quale ringraziamento per aver superato una delicata operazione al cuore.
“È l’arte – spiega Costantino D’Orazio, direttore Musei nazionali di Perugia – Direzione regionale Musei nazionali Umbria – a farla da padrona in questa mostra, e in particolare lo è uno dei suoi elementi decorativi più consueti, l’oro. Simbolo dell’incorruttibile eterno e allo stesso tempo causa primigenia della più abietta corruzione umana, questo metallo scaturito dalla terra che, pur senza esserlo in origine, diviene pigmento, è utilizzato dagli artisti fin dagli albori della civiltà e trasmigra da un’epoca all’altra senza mai perdere il suo significato. L’oro ci consente quindi di guardare alle opere del passato con gli stessi occhi con i quali guardiamo il nostro contemporaneo, astraendolo dalla dimensione temporale per immedesimarci nel valore simbolico e senza tempo di ogni singolo oggetto, arrivando a scoprire qualcosa di nuovo”. Si parte dall’eccezionale collezione di fondi oro del museo perugino, che accoglie
l’Autoritratto oro del 1960 di Michelangelo Pistoletto, la Madonna col Bambino e sei angeli di Duccio di Boninsegna ci conduce nella stagione più fulgida dell’arte senese nella prima metà del Trecento, mentre intrattiene un dialogo con il Concetto spaziale su fondo oro di Lucio Fontana, proveniente dalla Fondazione Prada di Milano. Oltre ai reliquiari di santa Giuliana di Cataluccio di Pietro da Todi – che accoglie in questa occasione la testina femminile dorata di Marisa Merz che conserva il potere e il sapore di una reliquia – e di Montalto, attribuito a
Jean du Vivier, affiancato all’ex-voto che Yves Klein dedicò a Santa Rita da Cascia, la mostra ospita la luminosa Madonna col Bambino di Gentile da Fabriano, con l’apparizione dei suoi angeli graniti a evocare il Sacerdote di Michelangelo Pistoletto. La bellezza smaterializzata della Golden Marilyn 11.40 di Andy Warhol dialoga con l’Angelo dalla Pala dei cacciatori di Bartolomeo Caporali, l’Oroblu (Oriente) di Carla Accardi richiama il manto in tessuto operato
della Madonna col Bambino del Maestro della Madonna di Montone, mentre La Maddalena di Fausto Melotti guarda alla santa dalle lunghe chiome dipinta da Taddeo di Bartolo per il Polittico di San Francesco al Prato. Fortemente lirica è l’associazione tra la Crocifissione della Pinacoteca Comunale di Terni di Niccolò di Liberatore, dove domina il nero, e la Tragedia civile di Jannis Kounellis, dove un attaccapanni che si staglia davanti a una parete ricoperta da lamina dorata conserva un cappello e un cappotto nero, evocando una tragedia e diventando simbolo della presenza dell’uomo nella storia. In mostra sono esposte per la prima volta insieme le due versioni dell’opera, una realizzata nel 1975, proveniente dal Kolumba, il Museo d’Arte dell’Arcidiocesi di Colonia (Germania), l’altra realizzata nel 2009, di proprietà della Galleria Alfonso Artiaco di Napoli. Durante il passaggio tra Medioevo e Rinascimento, la foglia d’oro scompare dagli sfondi dei dipinti per essere progressivamente confinata in parti marginali come le aureole, per poi estinguersi quasi del tutto, ad eccezione della produzione dell’eccentrico Bernardino di Mariotto, la cui Incoronazione della Vergine viene abbinata nel percorso espositivo al Diadema di Giulio Paolini. L’itinerario approda all’arte tessile dove l’uso dell’oro abbonda nella moda delle classi più elevate e soprattutto nei
paramenti liturgici. Tra gli ultimi dialoghi si inserisce il confronto tra gli Scarabei stercorari di Jan Fabre, con i loro simboli cristiani, e il piviale ricamato appartenente al cinquecentesco parato Armellini del Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo.
La presenza dell’oro in un’opera d’arte non è quasi mai una pura scelta formale ma appartiene a una sfera di significato molto più complessa che inevitabilmente rimanda alla figurazione sacra, al fondo oro dell’icona, a uno spazio trascendente. Se i pittori o i mosaicisti medievali cercavano nell’oro non la rappresentazione della realtà, ma la manifestazione della divinità, gli artisti contemporanei, ben consapevoli della sua eterna potenza simbolica, tornano a questa materia con diverso segno, ma identica intensità.
Carlo Franza