La mostra dal titolo “ALBUM. OMAGGIO A GIORGIO SOAVI” è promossa dallo STUDIO BOLZANI di MILANO, punto di riferimento significativo nella planimetria artistica di una città fortemente europea come Milano.  L’esposizione è da me curata, che firmo anche il testo, dal titolo “Album. Omaggio a Giorgio Soavi” e riunisce opere di venti artisti che rendono omaggio all’operato di Giorgio Soavi (Broni, 26 novembre 1923 – Milano, 1º dicembre 2008), intellettuale di chiara fama. In mostra sono presenti opere degli artisti Andrea Boyer, Maurizio Bottoni, Gianni Bucher Schenker, Carlo Cecchi, Flavio Costantini, Alessandro Di Vicino Gaudio, Gianfranco Ferroni, Federica Galli, Franco Gentilini, Giuliano Grittini, Hisako Mori, Mino Maccari, Bruno Mangiaterra, Carlo Mattioli, Ennio Morlotti, Stefano Pizzi, Marisa Settembrini, Graham Sutherland, Ivan Theimer, Agostino Zaliani.

Conviene subito chiarire che questa mostra “Omaggio a Giorgio Soavi” nasce in occasione dei cento anni della nascita di un intellettuale fuor dal comune, qual’ è stato Giorgio, mio collega sulle pagine culturali de Il Giornale in anni ormai lontani e amico di lunga data; mostra questa, sviluppata e ordinata presso lo Studio Bolzani di Milano in Galleria Strasburgo, visto che il nostro letterato-critico e giornalista era di casa anche qui. Con l’arte Giorgio aveva gran dimestichezza, la sua collezione d’arte cominciò a prendere vita nel 1958, a Zurigo, dove lui responsabile dell’Ufficio Progettazioni Speciali della Olivetti s’era recato per seguire la stampa di un volume che celebrava i primi cinquant’anni di vita dell’azienda di Ivrea; una scelta obbligata, il meglio del meglio, avere svizzeri Conzett & Huber come stampatori.  “Tutti gli elementi che fanno di un libro un bel libro erano lì: la bella carta, i caratteri perfetti, la qualità delle foto incisioni, la legatura”, ricorderà Giorgio Soavi, letterato, romanziere, saggista, poeta, critico, giornalista, fotografo, collezionista, lui stesso un artista, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita (1923-2008), in uno dei settantasette racconti che fanno parte di  “Il quadro che mi manca”, oggi riproposto dall’editore Johan & Levi, con prefazione di Andrea Pinotti, in cui l’autore narra con il suo stile inconfondibile, prezioso, umanissimo, incontri, impressioni, consuetudini, e vezzi dei numerosi amati amici artisti che ebbe modo di incontrare nella sua vita, Giacometti, Balthus, de Chirico, Sutherland, Folon, Steinberg, Guttuso, e altri. La vita di Soavi ha incrociato quella dei maggiori artisti del Novecento, lui scopritore di talenti, inventore delle celebri agende Olivetti, ideatore di raffinati libri d’arte proprio nell’azienda di Adriano Olivetti dove Soavi era sbarcato alla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Basti pensare a quanto scritto da Milton Glaser (1929-2020) punto di riferimento per generazioni di giovani grafici: “Con Giorgio era impossibile fare lavori mediocri. Aveva il tocco magico di affidare il compito su misura a ognuno dei designer con i quali lavorava, inventando progetti di cui era l’ispiratore. È stato in assoluto il miglior art director con cui abbia mai interagito, anche se lui si è sempre schernit0o. Il mio lavoro con Olivetti, ma per essere più precisi con Giorgio Soavi, è stato, letteralmente, un periodo d’oro che ha riverberato sulla mia vita influenzandola in mille modi, sia professionali che personali. Giorgio era uno che credeva profondamente nel motto di Diaghilev: “stupiscimi”, che era il fondamento del suo lavoro. Soavi vedeva l’arte e i suoi prodotti allo stesso modo in cui un animale vede e divora il cibo necessario per vivere”. Ricordo bene la casa di Giorgio Soavi, un attico al civico 5 di Via Santa Cecilia; sulla porta d’ingresso la dicitura Giorgio Soavi, un ingresso alto e stretto con scaffali pieni di libri fino al soffitto. Poi una serie di stanzette che si aprivano in parallelo lungo una veranda coperta. Poi dappertutto opere d’arte, tra pareti di libri, cornici, cartoline, bambole Kachina, tele, acquerelli, fotografie, fiori finti, divani, mobiletti, franchi svizzeri raffiguranti Alberto Giacometti, tavoli, sculture di arte africana, ritagli di articoli, grucce per abiti, altarini, un presepe rivestito da conchiglie con pastorelli e sacra famiglia in gesso policromo, orsacchiotti, un micro maglione di Ottavio Missoni incorniciato con dedica: “Golf per scrivere un romanzo” e molto altro. La sua casa-museo-in-divenire, con quella collezione d’arte nata con l’investimento di 30 franchi per le due acqueforti di Giacometti.  Alla sua morte tutto è stato dispeso in una vendita all’asta. Tra inestimabili opere d’arte, tanto per fare nomi, Adami, Alechinsky, Balthus, Bacon, Baj, Capogrossi, Dalì, Maccari, Mirò, Morlotti, Picasso, Serafini, Sottsass, Steinberg, la lista completa sarebbe troppo lunga. Lo sguardo andava subito alla mirabile statua lignea africana, alla tela di Francis Bacon, alla maschera messicana e i feticci Dogon, fino al misterioso dipinto di Graham Sutherland che ritraeva Soavi   in posa classica, seduto, lo sguardo rivolto allo spettatore, il corpo di profilo e le mani legate dietro la schiena. Senza dimenticare la Gioconda di Carlo Guarienti. Opere su tela, disegni su carta, olȋ, tempere, cartoncini o quant’altro, per Soavi non faceva differenza. Osservava Soavi: “Guarda, la differenza sta tutta nel committente. Le persone intelligenti dovrebbero fare i mecenati. Io so che un grande artista può veramente fare quello che gli chiedi. Prendi un Milton Glaser, oppure un Doré, un Tenniel che ha illustrato Alice,   o i due, Mazzanti e Chiostri, che hanno interpretato Pinocchio, come ha fatto lo stesso Topor.  Quando c’è il talento, la mano, e una persona che sa come “usarti”, guidarti, puoi fare tutto, non c’è limite”. Quella casa per Soavi è stata una tana, carica di affetto, memorie, ricordi, oggetti; da lì si muoveva per andare dai Bolzani in San Babila, o da Montanelli a Il Giornale, o anche da Pellegrini in Via Brera. Raccontava una di quelle storie che aveva vissuto solo lui, e che erano spunti infiniti per gli elzeviri che pubblicava prima sul Corriere della Sera, poi su Il Giornale del suo amico e sodale Indro Montanelli. “Ricordo un giorno, all’Hotel Continental di Milano, un mercante d’arte insisteva nel voler fare un regalo a de Chirico, e lui: senta, tutti vogliono fare regali complicati e soprattutto inutili, dice. Spendono dei soldi per niente. A me piace tanto il Punt e Mes e nessuno me lo manda mai. Mandi pure, lo berrò subito…”. Una sana nevrosi investiva il suo vivere, che Giorgio, non mischiandosi con colleghi scrittori, scaricava nella sua collezione d’arte e nella scrittura. E per finire ecco cosa diceva di sé: “Scrivo senza essere influenzato dalla moda o dalle polemiche, o dal successo. Scrivo per salvarmi, perché sono convinto di essere meglio nei libri che negli atti quotidiani”.

Carlo Franza

 

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